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E, a parte il fatto che c’era poco da bere e che l’evento, coperto dai media in maniera meschinamente faziosa, si era svolto quasi interamente lontano da qualsiasi giornalista, gonzo o no, quando venne il momento — e il momento venne, ebbi la mia occasione, me la trovai praticamente davanti agli occhi che mi urlava di scrivere qualcosa — feci fiasco, non riuscii a sfruttarla come giornalista; rimasi lì, paralizzato dall’orrore e in preda al panico, schiacciato dalla sua forza spaventosa, affrontando quella forza non con la mia persona professionale, non con le mie capacità, non con la maschera messa a punto per affrontare il mare di maschere che compongono il mondo, ma con la mia privata umanità, inadeguata e impreparata.

E ne uscii umiliato, sminuito, ridimensionato.

In mezzo a un deserto senza sole, sotto un cielo nero da orizzonte a orizzonte, un cielo denso di pesanti volute sulfuree, reso solido e immondo, invaso dagli effluvi oleosi e puzzolenti che eruttavano dalle viscere violate della terra, in quel buio di mezzogiorno, in quel disastro deliberato e pianificato, con quel bagliore da palla di fuoco che s’irradiava dai pozzi incendiati e che guizzava in lontananza con una fiamma sporca e sgocciolante, io, intontito e ammutolito, riuscii a rendermi conto del nostro ingegnoso e sconfinato talento per l’odio sanguinario e per la folle rovina, ma mi trovai privo degli strumenti per descrivere e trasmettere questa rivelazione.

Accucciato sulla sabbia violata, appiccicosa e nera come l’asfalto, a poca distanza da uno dei pozzi distrutti, ero rimasto a osservare il moncone spezzato di metallo nero al centro del cratere che eruttava un getto compresso di petrolio e gas con spruzzi rapidi, frementi, che immediatamente si frantumavano in bolle di pulviscolo marrone-nerastro, ingoiate dalla furiosa e urlante torre di fuoco: un lurido cipresso di fiamme alto un centinaio di metri, che scuoteva la terra come un interminabile terremoto e mugghiava folle e stridulo come il motore di un jet, squassandomi le ossa, facendomi battere i denti e vibrare gli occhi nelle orbite.

Il mio corpo tremava, le orecchie mi scoppiavano, mi bruciavano gli occhi e avevo la gola in fiamme per l’odore acre del greggio che evaporava, ma fu come se la ferocia stessa dell’esperienza mi avesse disarmato, indebolito e reso incapace di raccontarla.

Più tardi, sulla strada per Bassora, su quell’interminabile continuum di carneficine, su quella striscia ininterrotta di distruzione e di rovina che si estendeva, anch’essa, da un orizzonte all’altro, vagai tra le carcasse bruciate e mitragliate di macchine, furgoni, camion e autobus, vittime inermi di A10, Cobra e TOW, dell’artiglieria leggera, dei cannoni da trenta millimetri e delle bombe a grappolo. Vidi il metallo annerito, con soltanto qualche chiazza di vernice sporca e gonfia per il calore, i telai dilaniati e gli abitacoli squarciati di Honda, Nissan, Leyland e Mack, con i pneumatici a terra oppure scomparsi, distrutti, bruciati fino alle tele di acciaio; contemplai i frammenti di quella rovina collettiva sparpagliati sulla sabbia, e cercai d’immaginarmi che cosa era stato trovarsi lì, sconfitti, in rotta, fuggendo disperati su inermi veicoli civili, mentre i missili e le granate piovevano come una grandine supersonica e il fuoco eruttava tuonando tutto intorno. Cercai anche d’immaginarmi quante persone fossero morte lì, quanti corpi fossero stati dilaniati e carbonizzati e quanti brandelli umani fossero stati chiusi nei sacchi, portati via e seppelliti dalle squadre prima che a noi fosse permesso di vedere l’icona di quell’interminabile giorno di massacro.

Per qualche tempo, rimasi seduto su una piccola duna, a una cinquantina di metri dalla striscia di asfalto divelta e gonfia, e cercai di capire. Avevo il laptop aperto sulle ginocchia, lo schermo rifletteva il cielo nero sopra di me, il cursore lampeggiava lento nell’angolo superiore sinistro del display vuoto.

Dopo mezz’ora, non ero ancora riuscito a pensare a nulla che potesse descrivere la scena né le sensazioni che essa suscitava in me. Scossi la testa e mi alzai, voltandomi appena per spolverare il didietro dei calzoni.

Lo stivale, nero e carbonizzato, si trovava a un paio di metri di distanza, mezzo sepolto nella sabbia. Lo tirai su ed era sorprendentemente pesante; dentro c’era ancora il piede.

Arricciai il naso per il fetore e lo lasciai cadere, ma neanche questo riuscì a sbloccarmi, a rimettere in moto la mia mente.

Niente ci riuscì.

Dall’albergo spedii un pezzo banale e mediocre del genere «la guerra è un inferno, ma, da queste parti, anche la pace lo è, se sei femmina» e mi fumai un po’ di roba allucinogena molto potente procuratami da un affabile cameriere palestinese che — non appena i giornalisti se ne furono andati — venne arrestato dalle autorità kuwaitiane, torturato e deportato in Libano.

Quando tornai indietro, Sir Andrew mi disse che non era per niente soddisfatto degli articoli che avevo mandato; avrebbero benissimo potuto pubblicare i flash della Associated Press, spendendo molto meno e con lo stesso risultato. Non sapevo come ribattere e così me ne restai lì a subire la punizione verbale del vecchio per una buona mezz’ora. E, anche se sapevo che era sbagliato, ingiustificabile e che si trattava soltanto di un fiacco, spregevole esempio di boriosa autocommiserazione, per un po’, sotto quel raggelante diluvio di disprezzo professionale, mi sentii come se fossi stato anch’io intrappolato e polverizzato fra la sabbia e le ceneri unte della strada per Bassora.

Sento le urla dei morti al di sopra del boato dei pozzi contorti e ruggenti, sento l’odore del petrolio marrone nerastro, denso e nauseante e il fetore dolciastro della decomposizione; poi le urla si trasformano nel richiamo dei gabbiani, e l’odore diventa quello del mare, mescolato con quello acre del guano.

Sono ancora legato. Apro gli occhi.

Andy è seduto in terra di fronte a me, con la schiena appoggiata a una parete di cemento grezzo. Anche il pavimento è di cemento e così pure il soffitto. Alla sinistra di Andy c’è un’apertura, senza porta: soltanto una rozza via d’uscita verso l’esterno. Vedo altri edifici di cemento, tutti abbandonati, e una sottile torretta, striata di escrementi di gabbiani. Più oltre s’individuano onde irregolari con la cresta di schiuma bianca, e in lontananza si scorge una striscia di terra. Il vento soffia attraverso l’apertura, smuovendo sassolini e frammenti di vetro. Sento le onde che s’infrangono contro gli scogli. Sbatto le palpebre e guardo Andy.

Mi sorride.

Ho le mani legate dietro la schiena; le caviglie sono strette insieme con il nastro adesivo. Striscio verso il muro alle mie spalle e mi sollevo fino a ritrovarmi seduto. Ora vedo altra acqua, fuori, e altra terra. Una manciata di case in lontananza, un paio di boe che ballonzolano nell’acqua increspata dal vento e una piccola nave da trasporto che si allontana.

Ho un gusto orribile in bocca. Sbatto le palpebre, faccio per scuotere la testa, come per schiarirmela e allontanare la confusione, ma poi ci ripenso. Mi fa male da morire e pulsa.

«Come ti senti?» mi chiede.

«Da schifo. Cosa ti aspettavi?»

«Potrebbe essere peggio.»

«Oh, non ne dubito», mormoro. Sento molto freddo. Chiudo gli occhi e appoggio piano la testa contro il cemento gelido. Il cuore mi batte come se stesse pompando aria: troppo veloce e debole per spingere qualcosa di spesso come il sangue. Aria, penso. Cristo, mi ha iniettato aria nelle vene e sto per morire, con il cuore che sbatte schiuma e aria, il cervello che muore per mancanza di ossigeno, buon Dio, no… Ma passa un minuto e forse più e, anche se non mi sento troppo bene, non muoio. Apro di nuovo gli occhi.

Andy è sempre seduto davanti a me; indossa calzoni di velluto a coste marrone, un giubbotto mimetico e un paio di anfibi. C’è un grosso zaino in tessuto mimetico appoggiato contro il muro a circa un metro alla sua sinistra, e una bottiglia di acqua minerale mezza piena è posata in terra davanti a lui. Vicino alla mano destra tiene un telefono cellulare; vicino alla sinistra, una pistola. Non me ne intendo di pistole, quello che basta per sapere la differenza tra un revolver e un’automatica, ma credo di riconoscere quella pistola grigia; credo che sia la stessa che aveva quella notte, un paio di settimane dopo la morte di Clare, quando era deciso a vendicarsi con il dottor Halziel. Ora penso che forse avrei dovuto lasciarglielo fare.