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Esce dall’apertura con un saltello, tuffandosi nella luce del sole e nel vento teso, scendendo a due a due i gradini che portano a un passaggio tra due edifici, e poi scompare, fischiettando. Mi appoggio al muro.

Mi accuccio sulle caviglie legate e sollevo il telefono. Sembra che sia carico e che funzioni. Compongo il numero della vecchia casa di mamma e papà a Strathspeld: risponde una segreteria telefonica, con una voce di uomo, burbera e scortese.

Chiudo la comunicazione.

Ci metto almeno un minuto a togliere il nastro adesivo che mi lega le caviglie. Prendo l’impermeabile da terra, scrollo via la polvere e lo indosso.

Il vento sbatte le falde contro le mie gambe mentre sto fermo sulla soglia, con il Fife alla mia destra, gli alberi di Dalmeny Park e di Mons Hill sulla sinistra e i due ponti davanti a me: uno diritto, con la sua ragnatela di metallo rosso, l’altro con il suo arco perfetto, pitturato di grigio come una nave da guerra.

Il braccio di mare è increspato e scuro, e le onde vanno veloci, sospinte dal vento proveniente da est. Due dragamine stanno passando sotto il ponte, dirette verso Rosyth; un’enorme petroliera è ferma, al terminal petrolifero di Hound Point, con due rimorchiatori che le fanno compagnia; lì accanto, ci sono anche due gigantesche gru su chiatte. Sono lì da quasi un anno: stanno costruendo un secondo terminal. Una petroliera più piccola si sta dirigendo verso il mare aperto, bassa sull’acqua dopo aver caricato alla raffineria di Grangemouth. A nord, oltre Incholm, una gasiera dallo scafo dipinto di rosso è ferma a Braefoot Bay, e sta caricando dal gasdotto collegato all’impianto di Mossmorran — qualche chilometro all’interno della costa — la cui posizione è indicata da due pennacchi bianchi di vapore. Osservo tutta questo movimento, sorpreso di quanto sia ancora industrialmente attivo il nostro vecchio fiume.

Sopra tutto questo, i gabbiani volteggiano e si lasciano portare dalle correnti, sospesi nell’aria con il becco aperto, urlando nel vento. Gli edifici, le torrette, le baracche e le postazioni per i cannoni della piccola isola sono tutti coperti di guano.

Mi sfrego la nuca, ma sussulto nel toccare il bernoccolo. Guardo il telefono stretto in mano, respiro la frizzante aria marina e tossisco.

La tosse continua per un po’, poi smette.

Allora, che faccio? Un nuovo tradimento, anche se è un tradimento che Andy sembra volere? O taccio e divento a tutti gli effetti suo complice, lasciandolo libero di uccidere e mutilare Dio solo sa chi altri… Un radicale libero nella nostra corruzione sistemica?

Che cosa devo fare?

Scuotiti, Cameron: guardati intorno fra questi relitti di cemento e osserva il fiume pulsante di attività, cerca un’ispirazione, un indizio, un segno. Oppure fa’ qualcosa che distragga la tua mente da una decisione che sicuramente rimpiangerai, qualunque essa sia.

Compongo un numero sul telefono.

Si sentono vari bip. Intanto osservo le nuvole che corrono molto in alto. Poi finalmente arriva la comunicazione.

«Sì, pronto», dico. «Vorrei parlare con il dottor Girson, per favore. Sono Cameron Colley.» Mi guardo in giro, cercando di vedere Andy, ma di lui non c’è traccia. «Sì, Cameron. Esatto. Mi chiedevo se ha già i risultati… quindi… Be’, se potesse darmeli adesso sarebbe… Sì, per telefono, perché no?… Sì, credo di sì. Be’, si tratta di me, no, dottore?… Voglio sapere… Senta, lasci che le faccia una domanda diretta, dottore: ho un tumore ai polmoni? Dottore… dottore… no, dottore… Senta, vorrei una risposta diretta, se non le dispiace. No, non credo… La prego, dottore. Ho un cancro? No, sto cercando di… no, voglio solo… no… Senta, ho un cancro?… Ho un cancro? Sì o no?

Alla fine il medico perde la pazienza e fa l’unica cosa furba: riattacca.

«Ci vediamo domani, dottore», sospiro.

Spengo il telefono e mi siedo sul gradino. Osservo l’acqua e i due lunghi ponti sotto il cielo azzurro striato dalle nuvole. Una foca fa capolino dall’acqua a una cinquantina di metri. Ballonzola per un po’, scrutando l’isola e forse me, poi scompare di nuovo tra le onde.

Guardo la pulsantiera del telefono e avvicino il dito.

Per quanto ne so, Andy potrebbe anche tornare indietro, dirmi, tutto allegro: «Ciao!» e poi farmi saltare le cervella, così, giusto per principio.

Non so.

Il dito indugia sui pulsanti, poi si ritrae.

No, proprio non so.

Resto lì seduto, al vento e al sole, tossendo, con il telefono stretto fra le mani.

» SLEEP WHEN I’M DEAD «

Proprio nel cuore della grandiosa e grigia eleganza di questa città in festa c’è un tetro nucleo di oscurità, un universo antico e dimenticato di malattia, di disperazione e di morte. Sotto l’imponente edificio ottocentesco della City Chambers, infilato nel fianco ripido della collina, tra la S sopraelevata di Cockburn Street e la spianata in acciottolato di High Street, davanti alla cattedrale di St. Giles, c’è un quartiere della città vecchia che fu murato quattrocento anni fa.

Mary King’s Close fu abbandonato e sepolto nel XVI secolo, esattamente nello stato in cui si trovava, intatto, a causa della peste che aveva mietuto moltissime vittime negli edifici popolari concentrati in questa zona della città e che, all’epoca, erano gremiti come conigliere. I corpi dei defunti vennero lasciati nelle case, trasformate quindi in sepolcri comuni, e rimasero lì a marcire. Le ossa furono rimosse soltanto molto tempo dopo.

E così, quella vecchia, fredda isola di oscurità totale si trova ancora oggi al centro dell’ammasso di detriti morenici posto a est della cupola vulcanica che forma lo spuntone di roccia su cui sorge il castello, nelle viscere profonde di questa capitale addormentata.

E tu ci sei stato.

Ci sei andato cinque anni fa, insieme con Andy e con le ragazze che uscivano con voi a quell’epoca. Andy, che si trovava in città per l’inaugurazione della filiale di Edimburgo del Gadget Shop, aveva chiesto un favore a certe persone di sua conoscenza che lavoravano in Comune ed era riuscito a organizzare una visita. Così, per ridere, aveva detto.

Il posto era più piccolo e buio di quanto ti aspettassi e odorava di umido; le pareti e i soffitti anneriti stillavano acqua. Le ragazze avevano avuto paura ed erano state costrette a risalire i gradini fino al corridoio al piano superiore, dove si era fermato il vecchio custode che vi aveva fatto entrare. Poi, alcuni minuti dopo, quando le luci si erano spente all’improvviso, tutto era piombato nell’oscurità più totale e assoluta che tu avessi mai sperimentato.

La ragazza che stava con Andy aveva lanciato un breve urlo, ma Andy si era limitato a ridacchiare e aveva tirato fuori una torcia. Aveva organizzato tutto con il custode: era uno scherzo.

In quei momenti di buio, però, rimanesti immobile, quasi fossi diventato di pietra anche tu, proprio come quelle rachitiche costruzioni sepolte che ti circondavano, e, nonostante il tuo colto cinismo, la tua essenza di maschio occidentale materialista del XX secolo, nonostante il tuo feroce disprezzo per qualsiasi superstizione, provasti un attimo di puro, assoluto terrore, una paura del buio del tutto primordiale, una paura le cui radici affondavano in un tempo dimenticato, prima che la tua specie diventasse veramente umana e arrivasse a conoscersi. E, in quel primitivo specchio dell’anima, in quel penetrante momento di autocoscienza che sondava gli abissi della storia collettiva e del tuo essere individuale, tu — in quell’istante dilatato, impietrito — intravedesti qualcosa che era te stesso e che non lo era, che costituiva per te una minaccia, ma non del tutto, che era in parte tuo nemico e in parte no, ma che possedeva un’indifferenza assoluta e adeguatamente funzionale più raccapricciante del male stesso.