Eppure l’origine della vita sembrava essere così facile ora — e c’erano tanti sistemi planetari, tanti mondi e tanti miliardi di anni disponibili per l’evoluzione biologica — che era difficile credere che la Galassia non brulicasse di vita e di intelligenza. Il progetto Argus era il più grande impianto del mondo destinato alla ricerca radio di intelligenze extraterrestri. Le onde radio viaggiavano alla velocità della luce, di cui nulla si propagava più rapidamente a quanto pareva. Erano facili da produrre e facili da rilevare. Persino civiltà tecnologicamente arretratissime come quella della Terra, avevano scoperto le onde radio quasi all’inizio della loro esplorazione del mondo fisico. Persino con la rozza tecnologia radio disponibile — adesso, a pochi decenni soltanto dall’invenzione del radiotelescopio — era quasi possibile comunicare con un’identica civiltà al centro della Galassia. Ma c’erano così tanti luoghi del cielo da esaminare, e così tante frequenze su cui una civiltà aliena avrebbe potuto trasmettere, che si richiedeva un programma sistematico e paziente di osservazione. Argus era in piena attività da più di quattro anni. Cerano stati guasti, segnali di allarme, indizi, falsi allarmi. Ma nessun messaggio. «Buon pomeriggio, dottoressa Arroway.»
L’unico ingegnere le sorrise affabilmente e lei contraccambiò con un cenno del capo. Tutti i 131 telescopi del Progetto Argus erano controllati da computers. Il sistema scandagliava il cielo da solo, verificando che non ci fossero guasti meccanici o elettronici, raffrontando i dati provenienti da differenti elementi della schiera di telescopi. Ellie diede un’occhiata all’analizzatore con un miliardo di canali, un impianto elettronico che ricopriva un’intera parete, e all’indicatore visivo dello spettrometro.
Non c’era davvero molto da fare per gli astronomi e i tecnici mentre il Very Large Array, nel corso degli anni, passava in rassegna lentamente il cielo. Se scopriva qualcosa di interessante, suonava automaticamente un allarme, mettendo in stato di allerta gli scienziati addetti al progetto, se necessario anche quando fossero stati a letto. In quel caso Ellie Arroway si buttava al lavoro per determinare se si trattasse di un’avaria agli strumenti o di una qualche diavoleria spaziale americana o sovietica. Con lo staff di ingegneri escogitava modi per migliorare la sensibilità dell’apparecchiatura. C’era un segnale ripetuto, una qualche regolarità nell’emissione? Incaricava qualcuno degli addetti ai radiotelescopi di esaminare curiosi oggetti astronomici che erano stati individuati di recente da altri osservatori. Dava una mano ai membri dello staff e agli scienziati ospiti i cui progetti non avevano nessun rapporto con SETI. Volava a Washington per mantenere vivo l’interesse nell’organizzazione per i fondi, la National Science Foundation. Teneva alcune conferenze pubbliche sul Progetto Argus al Rotary Club di Socorro o all’Università del New Mexico ad Albuquerque e occasionalmente porgeva il benvenuto a un intraprendente reporter che arrivava nello sperduto New Mexico all’improvviso.
Ellie doveva stare attenta a non lasciarsi sopraffare dalla noia. I suoi collaboratori erano abbastanza piacevoli, ma, a parte il fatto che una stretta relazione personale con un subordinato sarebbe stata sconveniente, non si sentiva tentata da nessuna vera intimità. C’erano stati alcuni rapporti brevi, molto caldi, ma essenzialmente casuali, con uomini del posto che non avevano niente a che fare con il Progetto Argus. Anche in questo settore della sua vita una sorta di tedio, di apatia si era impadronita di lei.
Si sedette davanti a una delle consolle e collegò le cuffie. Si rendeva pienamente conto che era una vana presunzione il pensare che lei, ascoltando uno o due canali, potesse scoprire un segnale regolare quando l’enorme sistema computerizzato che controllava un miliardo di canali non c’era riuscito. Ma le dava la modesta illusione di sentirsi utile. Si appoggiò all’indietro, con tli occhi semichiusi, con un’espressione quasi sognante sul volto, davvero bella, si permise di pensare il tecnico. Udì, come al solito, una sorta di crepitio elettrostatico, un rumore casuale che echeggiava continuamente. Una volta, mentre ascoltava una parte del cielo che includeva la stella AC+79 3888 nella costellazione di Cassiopea, aveva creduto di percepire una specie di canto che aumentava e diminuiva d’intensità in maniera tormentosa, arrivando quasi a convincersi che c’era davvero qualcosa lassù. Si trattava della stella verso cui il veicolo spaziale Voyager 1, ora in prossimità dell’orbita di Nettuno, avrebbe finito per fare rotta. Il veicolo trasportava un disco d’oro su cui erano incise notazioni scientifiche e registrati suoni terrestri. Era possibile che ci stessero inviando la loro musica alla velocità della luce, mentre noi contraccambiavamo a una velocità diecimila volte minore? Altre volte, come adesso, quando il crepitio elettrostatico era chiaramente irregolare, si ricordava della ramosa affermazione di Shannon nella teoria dell’informazione, che il messaggio meglio tradotto in cifra era indistinguibile dal rumore, a meno che non si fosse già stati in possesso del cifrario. Premette rapidamente alcuni tasti sulla consolle che le stava davanti e sintonizzò due delle frequenze a banda stretta l’una contro l’altra, una in ciascun auricolare. Nulla. Ascoltò i due piani di polarizzazione delle onde radio, e quindi il contrasto tra la polarizzazione lineare e circolare. C’era un miliardo di canali tra cui scegliere. Si poteva passarla vita tentando di superare il computer, ascoltando con orecchie e cervelli umani pateticamente limitati, cercando un segnale regolare. Sapeva che gli uomini sono bravi a percepire tenui segnali che ci sono davvero, ma anche a immaginarli quando sono completamente assenti. C’erano alcune sequenze di impulsi, alcune conformazioni di cariche elettrostatiche che potevano produrre per un attimo una battuta sincopata o una breve melodia. Si inserì in un paio di radiotelescopi che erano in ascolto di una sorgente radio galattica conosciuta. Udì un glissando sulle frequenze radio, un «sibilo» causato dalla dispersione delle onde radio a opera degli elettroni nel rarefatto gas interstellare esistente tra la radiosorgente e la Terra. Più marcato era il glissando e più elettroni c’erano lungo il percorso, e più lontana era la sorgente dalla Terra. L’aveva fatto così spesso che era capace, solo sentendo un fischio radio per la prima volta, di formulare un giudizio preciso sulla sua distanza. Questo, calcolò, era alla distanza di circa mille anni luce, molto oltre le stelle vicine, ma ancora ben all’interno della Via Lattea. Ellie ritornò al procedimento di controllo del cielo del Progetto Argus. Di nuovo nessun segnale regolare. Era come se un musicista stesse ascoltando il rombo di un temporale lontano. Gli occasionali brandelli di segnale la perseguitavano e si insinuavano nella sua memoria con una tale insistenza che talvolta si sentiva costretta a riesaminare i nastri di un particolare percorso di osservazione per vedere se vi fosse qualcosa che la sua mente aveva percepito e che i computers si erano lasciati sfuggire.
Per tutta la vita, i sogni le erano stati amici. I suoi sogni erano insolitamente dettagliati, ben strutturati, pieni di colore. Riusciva a scrutare da vicino il volto del padre o il pannello posteriore di un vecchio apparecchio radio, e il sogno le regalava tutti i particolari visivi. Era sempre stata in grado di ricordare i suoi sogni, persino nei minimi dettagli, tranne le volte in cui era stata estremamente sotto pressione, come prima del suo esame orale di dottorato in fisica, o quando lei e Jesse stavano rompendo. Ma ora stava trovando difficile ricordare le immagini dei suoi sogni. E, in modo sconcertante, cominciò a sognare dei suoni, come fanno coloro che sono ciechi dalla nascita. Nelle primissime ore del mattino, il suo inconscio generava un tema o un breve canto che non aveva mai sentito prima. Allora si svegliava, dava un ordine udibile alla lampada sul suo tavolino da notte, prendeva la penna che aveva messo là a tale scopo, tracciava un pentagramma e affidava la musica alla carta. Talvolta, dopo una lunga giornata la suonava sul suo registratore e si chiedeva se l’aveva udita nella costellazione di Ofiuco o del Capricorno. Era ossessionata, doveva tristemente ammetterlo, dagli elettroni e dalle lacune mobili presenti nei ricevitori e negli amplificatori, e dalle particelle cariche e dai campi magnetici del freddo gas rarefatto esistente tra le lontane stelle tremolanti.