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Ma mentre Hadden meditava ulteriormente sulla faccenda, anche tale piano sembrava troppo modesto. Perché alcune cellule raschiate dalle piante dei piedi non erano veramente noi stessi. Nel migliore dei casi potevano ricostruire la nostra forma fisica. Ma questo non è esattamente come vivere. Se fossimo stati davvero seri, avremmo dovuto includere foto di famiglia, un’autobiografia minuziosamente dettagliata, tutti i libri e i nastri che ci erano piaciuti, e qualunque altra cosa che ci riguardasse, se fosse stato possibile. Le marche preferite di lozione dopo-barba, per esempio, o la coca cola dietetica. Era supremamente egoistico, Hadden lo sapeva e gli piaceva. Dopo tutto, l’epoca aveva prodotto un delirio escatologico prolungato. Era naturale pensare alla propria fine mentre tutti gli altri contemplavano la fine della specie o del pianeta o l’ascesa al cielo in massa degli eletti.

Non ci si poteva aspettare che gli extraterrestri conoscessero l’inglese. Se dovevano ricostruirci, avrebbero dovuto sapere il nostro linguaggio. Perciò si doveva includere una sorta di traduzione, problema che appassionava Hadden. Era quasi l’inverso del problema di decifrazione del Messaggio.

Tutto ciò richiedeva una capsula spaziale capiente, così capiente che non si sarebbe stati più obbligati a limitarsi a semplici campioni di tessuto. Si poteva spedire pure l’intero corpo. Se ci si poteva surgelare rapidamente dopo la morte, per così dire, era tanto di guadagnato. Forse sarebbe rimasta in efficienza una parte tale di noi che avrebbe consentito a chiunque ci trovasse di far qualcosa di meglio di una semplice ricostruzione. Forse avrebbero potuto riportarci in vita: naturalmente dopo aver stabilito di che cosa si era morti. Se si indugiava un po’, prima di farsi ibernare, però — perché, diciamo, i parenti non si erano resi conto che si era già morti — le prospettive di rinascita diminuivano. Ciò che avrebbe avuto veramente senso, pensava Hadden, sarebbe stato surgelare qualcuno immediatamente prima del decesso. Il che avrebbe reso l’eventuale richiamo in vita molto più probabile, anche se ci sarebbe stata verosimilmente una richiesta limitata per tale servizio. Ma allora, perché appena prima di morire? Supponiamo che si sapesse di avere solo un anno o due di vita; non sarebbe stato meglio essere ibernati immediatamente, Hadden riflette: prima che la carne andasse a male? A prescindere dalla natura della malattia devastante, pensò sospirando Hadden, poteva essere ancora incurabile una volta richiamati in vita; si poteva restare surgelati per un’età geologica ed essere risvegliati soltanto per morire subito di un melanoma o di un infarto di cui gli extraterrestri potevano essere completamente all’oscuro.

No, egli concluse, c’era soltanto una realizzazione perfetta di quell’idea: qualcuno in ottime condizioni di salute avrebbe dovuto essere lanciato in un viaggio a senso unico alla volta delle stelle. Come beneficio incidentale, ci si sarebbe risparmiati l’umiliazione della malattia e della vecchiaia. Lontano dal sistema solare interno, la temperatura d’equilibrio del corpo sarebbe scesa quasi allo zero assoluto. Non sarebbe stata necessaria un’ulteriore refrigerazione. Controllo perpetuo assicurato. Gratuito. Seguendo tale logica, Hadden pervenne alla fase finale della sua speculazione: se ci volevano alcuni anni per raggiungere il freddo interstellare, si poteva pure restar svegli per godersi lo spettacolo e surgelarsi rapidamente solo dopo aver lasciato il sistema solare. Avrebbe anche ridotto al minimo la dipendenza eccessiva alla criogenia.

Hadden aveva preso ogni ragionevole precauzione contro un imprevisto problema medico in orbita terrestre, diceva il rapporto ufficiale, ricorrendo persino alla disintegrazione sonica dei suoi calcoli biliari e renali prima di metter piede nel suo castello celeste. E poi se ne era andato all’altro mondo per uno shock anafilattico. Un’ape era uscita infuriata da un mazzo di fresie inviato da un’ammiratrice a bordo del «Narnia». Imprudentemente, la spaziosa farmacia del «Matusalemme» non si era rifornita dell’antisiero adatto. L’insetto era stato probabilmente immobilizzato dalla bassa temperatura nella stiva del «Narnia» e non era davvero da biasimare. Il suo corpicino mal ridotto era stato rimandato sulla Terra per essere esaminato da entomologi legali. L’ironia del miliardario stroncato da un’ape non era sfuggita all’attenzione degli editoriali giornalistici e dei sermoni domenicali.

Ma in realtà, era tutto un imbroglio. Non c’era stata nessuna ape, nessuna puntura, e nessuna morte. Hadden rimaneva in eccellente salute. Invece, allo scoccare del nuovo anno, nove ore dopo che la Macchina era stata attivata, si accesero i motori a razzo di un veicolo ausiliario piuttosto grande che era attraccato al «Matusalemme». Esso raggiunse rapidamente la velocità di fuga dal sistema Terra-Luna. Hadden lo aveva battezzato «Gilgamesh». Hadden aveva trascorso la sua vita accumulando potere e meditando sul tempo. Trovava che più potere si aveva e più se ne bramava. Il potere e il tempo erano connessi, perché tutti gli uomini sono uguali nella morte. Ecco perché gli antichi re facevano costruire dei monumenti a loro ricordo. Ma i monumenti finivano consumati dal tempo, le virtù reali venivano avvolte dall’oblio, i nomi stessi dei sovrani venivano dimenticati. E, importantissimo, loro stessi erano morti stecchiti. No, questa soluzione era più elegante, più bella, più soddisfacente. Hadden aveva trovato un varco nel muro del tempo. Se avesse semplicemente annunciato i suoi piani al mondo, ci sarebbero state certo complicazioni. Se Hadden era surgelato a quattro gradi Kelvin a dieci bilioni di chilometri dalla Terra, qual era esattamente il suo stato legale? Chi avrebbe controllato la sua società? Quel modo di scomparire era molto più semplice. In un codicillo secondario di un elaborato testamento, aveva lasciato ai suoi eredi e cessionari una nuova società, specializzata in motori a razzo e criotecnica, che sarebbe stata chiamata «Immortality, Inc.». Non doveva pensare mai più alla faccenda. «Gilgamesh» non era provvisto di una radio. Non desiderava più sapere quello che era accaduto ai Cinque. Non voleva più notizie dalla Terra: nulla di incoraggiante, nulla di deprimente, nulla che gli ricordasse le passate, vane battaglie. Soltanto solitudine, pensieri elevati… silenzio. Se fosse accaduto qualche spiacevole imprevisto in un vicino futuro, il sistema criogenico del «Gilgamesh» sarebbe stato attivato in un batter d’occhio dallo scatto di un interruttore. Fino ad allora, ci sarebbe stata un’intera discoteca della sua musica favorita, e letteratura e videotape. Non sarebbe stato solo. In verità non aveva mai cercato troppo la compagnia. Yamagishi aveva preso in considerazione l’eventualità di accompagnarlo, ma all’ultimo momento si era tirato indietro; si sarebbe sentito perduto, disse, senza «staff». E in quel viaggio c’erano poche attrattive e uno spazio inadeguato per uno staff. La monotonia del cibo e le poche comodità avrebbero potuto scoraggiare un altro, ma Hadden sapeva di essere un uomo con un grande sogno. Delle comodità non gli importava proprio nulla.

Nel giro di due anni, quel sarcofago volante sarebbe finito nella buca di potenziale gravitazionale di Giove, appena fuori delle sue fasce di radiazione, sarebbe stato catapultato attorno al pianeta e quindi scagliato nello spazio interstellare. Per un giorno Hadden avrebbe avuto una veduta ancor più spettacolare di quella che si poteva ammirare dalla finestra del suo studio sul «Matusalemme» — le tempestose nubi multicolori di Giove, il pianeta più grande. Se fosse stata solo una questione di panorama, Hadden avrebbe optato per Saturno e i suoi anelli. Preferiva gli anelli. Ma Saturno si trovava ad almeno quattro anni dalla Terra e, tutto considerato, era rischioso. Se si sta inseguendo l’immortalità, bisogna stare molto attenti. A quelle velocità, ci sarebbero voluti diecimila anni solo per arrivare alla stella più vicina. Una volta surgelati a quattro gradi sopra lo zero assoluto, però, si aveva moltissimo tempo. Ma un bel giorno, ne era sicuro, anche se avesse dovuto trascorrere un milione di anni, «Gilgamesh» sarebbe entrato per caso nel sistema solare di qualcun altro. O la sua barca funebre sarebbe stata intercettata nell’oscurità infrastellare, e altri esseri — molto avanzati, molto perspicaci — avrebbero preso il sarcofago a bordo e saputo quel che si doveva fare. La cosa non era stata mai davvero tentata prima. Nessuno che fosse mai vissuto sulla Terra aveva avuto una fine simile.