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Coraline si mise a sedere sul divano e mangiò la sua mela.

— Ti prego — disse l’altra madre. — Non fare la difficile. — Entrò nel salotto e batté due volte le mani. Si sentì un fruscio e apparve un ratto nero. L’animale alzò lo sguardo verso di lei. — Portami la chiave — gli ordinò.

Il ratto squittì, poi varcò di corsa la porta aperta che conduceva nell’appartamento di Coraline.

Il ratto tornò trascinandosi dietro la chiave.

— Come mai non avete la vostra chiave, da questa parte? — domandò Coraline.

— Perché ce n’è una sola. E una sola porta — disse l’altro padre.

— Shh — fece l’altra madre. — Non devi turbare la testolina della nostra cara Coraline con queste sciocchezze. — Infilò la chiave nella toppa e girò. La serratura resistette, ma poi si chiuse con uno scatto metallico.

L’altra madre lasciò cadere la chiave nella tasca del suo grembiule da cucina.

Fuori, il cielo aveva cominciato a tingersi di un grigio luminescente.

— Se non vogliamo fare nessuno spuntino di mezzanotte — disse l’altra madre — abbiamo comunque bisogno del nostro sonno di bellezza. Io me ne torno a letto, Coraline. E ti raccomando caldamente di fare lo stesso.

Mise le lunghe e bianche dita sulle spalle dell’altro padre e lo guidò fuori dalla stanza.

Coraline raggiunse la porta nell’angolo estremo del salotto. Cercò di aprirla a strattoni, ma era chiusa saldamente. Anche la porta della stanza dei suoi altri genitori era chiusa.

Era stanca, certo, ma non aveva nessuna intenzione di dormire in camera sua. Non voleva dormire sotto lo stesso tetto dell’altra madre.

La porta di casa non era chiusa a chiave. Coraline uscì nella luce dell’alba e scese i gradini di pietra. Si sedette sul primo gradino in fondo alle scale. Era ghiacciato.

Sentì qualcosa di peloso premerle sul fianco, con un movimento subdolo e mellifluo. Coraline fece un salto, poi tirò un sospiro di sollievo quando capì di cosa si trattava.

— Oh! Sei tu — disse al gatto nero.

— Lo vedi? — ribatté il gatto. — Non è stato così difficile riconoscermi, no? Anche senza nomi.

— Be’. E se avessi voluto chiamarti?

Il gatto arricciò il naso e riuscì ad assumere un’espressione di indifferenza. — Mettere un nome ai gatti — rivelò a Coraline — è un’attività alquanto sopravvalutata. Tanto varrebbe mettere nome a una tromba d’aria.

— E se fosse l’ora di cena? — gli domandò lei. — Allora non vorresti che ti chiamassero?

— Naturalmente — disse il gatto. — Ma basterebbe semplicemente gridare: "La cena!" Non c’è nessun bisogno dei nomi.

— Perché quella mi vuole? — domandò Coraline al gatto. — Perché vuole che resti qui con lei?

— Vuole qualcosa a cui voler bene, immagino — le rispose il gatto. — Qualcosa che non sia lei stessa. E forse vuole anche qualcosa da mangiare. È difficile stabilirlo, con creature di quel genere.

— Hai qualche consiglio da darmi? — gli domandò Coraline.

Il gatto aveva l’espressione di chi sta per dire qualcosa di sarcastico. Poi mosse i baffi e disse: — Sfidala. Non c’è nessuna garanzia che giochi pulito, ma quelli come lei amano i giochi e le sfide.

— E chi sono quelli come lei? — domandò Coraline.

Ma il gatto non rispose, si limitò a stiracchiarsi beatamente e poi cominciò ad allontanarsi. A un certo punto si fermò, si voltò e disse: — Se fossi in te entrerei in casa. Cerca di dormire. Ti aspetta una giornata molto lunga.

E il gatto scomparve. Tuttavia, si rese conto Coraline, aveva ragione lui. Rientrò furtivamente nella casa silenziosa, passò davanti alla porta chiusa della stanza da letto dietro la quale l’altra madre e l’altro padre… cosa facevano?, si domandò. Dormivano? Aspettavano? E poi le venne in mente che, se avesse aperto la porta, avrebbe trovato la stanza vuota; anzi, più precisamente, che quella era una stanza vuota e che sarebbe rimasta vuota fino all’esatto momento in cui lei avrebbe aperto la porta.

In un certo senso, così diventava tutto più facile. Coraline entrò nella parodia rosa e verde della sua stanza. Chiuse la porta e la bloccò con la scatola dei giocattoli; non avrebbe di certo impedito a nessuno di entrare, ma il rumore che avrebbero fatto se avessero tentato di spostarla l’avrebbe di certo svegliata, o così sperava.

I giocattoli nella scatola dormivano quasi tutti, ma si girarono nel sonno e mormorarono qualcosa, quindi si riaddormentarono. Coraline controllò sotto il letto per vedere se ci fossero i ratti, ma non c’era niente. Si tolse la vestaglia e le pantofole, si mise a letto e si addormentò, senza avere il tempo di riflettere su cosa intendesse dire il gatto quando aveva parlato di una sfida.

VI

Coraline venne svegliata dal sole di metà mattina, che le illuminava il viso.

Per un istante si sentì profondamente scombussolata. Non capiva dove si trovasse; non era nemmeno del tutto sicura di chi fosse. È sorprendente come ciò che siamo possa dipendere dal letto in cui ci risvegliamo al mattino, ed è sorprendente quanto tutto ciò possa rivelarsi fragile.

C’erano volte in cui Coraline dimenticava chi fosse, quando sognava a occhi aperti di esplorare l’Artico, o la foresta pluviale amazzonica, o l’Africa più ignota… e solo quando qualcuno le batteva la mano sulla spalla o la chiamava per nome, lei tornava con un sussulto da un milione di miglia di distanza, e in una sola frazione di secondo doveva ricordarsi chi era, e come si chiamava, e che si trovava proprio lì.

Adesso aveva il sole in faccia, ed era Coraline Jones. Sì. E a quel punto il rosa e il verde della stanza in cui si trovava, e il fruscio di una grande farfalla di carta dipinta che svolazzava verso il soffitto battendo le ali, le dissero che si era svegliata.

Scese dal letto. Giunse alla conclusione che non poteva indossare pigiama, vestaglia e pantofole durante il giorno, anche se sarebbe stata costretta a indossare i vestiti dell’altra Coraline. (Esisteva un’altra Coraline? No, decise che non esisteva. Esisteva lei e basta.) Nell’armadio, però, non c’erano dei veri vestiti, e comunque non del genere che le sarebbe piaciuto trovare nell’armadio di casa sua: uno sbrindellato costume da strega; un costume da spaventapasseri tutto toppe; un costume da guerriero del futuro ornato di piccole luci che scintillavano, accendendosi e spegnendosi a intermittenza; un attillato abito da sera pieno di piume e lustrini. Alla fine, in un cassetto, trovò un paio di jeans neri che sembravano fatti di notte vellutata, e un maglione grigio del colore del fumo denso, con delicate e minuscole stelle di tessuto luccicante.

Indossò jeans e maglione. Poi calzò un paio di stivali arancione brillante che trovò in fondo all’armadio.

Dalla tasca della vestaglia prese l’ultima mela e poi, sempre dalla stessa tasca, il sassolino con il buco.

Si mise il sassolino nella tasca dei jeans e si sentì la testa leggermente più libera. Come se fosse uscita da una specie di nebbia.

Andò in cucina, ma la trovò deserta.

Eppure aveva la certezza che nell’appartamento ci fosse qualcuno. Raggiunse lo studio in fondo al corridoio, e scoprì che era occupato.

— Dov’è l’altra madre? — domandò all’altro padre, che era seduto dietro una scrivania identica a quella del suo padre vero. Lui però non stava facendo assolutamente niente; non stava nemmeno leggendo i cataloghi di giardinaggio che leggeva suo padre quando faceva finta di lavorare.