Quello incespicò, stordito, poi si mise a correre. Con un colpo di zampa, il gatto lo fece volare in aria, afferrandolo con la bocca mentre cadeva.
— Smettila! — gridò Coraline.
Il gatto fece cadere a terra il ratto, fra le sue zampe anteriori. — C’è chi afferma — disse il gatto con un sospiro e in tono eccessivamente soave — che i gatti abbiano la spietata tendenza a giocare con la propria preda; però, in fin dei conti, ci sono gatti che ogni tanto permettono al loro occasionale e simpatico spuntino di scappare. Tu con quale frequenza ti lasci sfuggire la cena?
Quindi prese in bocca il ratto e lo portò nel bosco, dietro un albero.
Coraline rientrò in casa.
Tutto era silenzioso, vuoto e deserto. Persino i suoi passi sulla moquette sembravano far rumore. I granelli di polvere erano sospesi in uno spiraglio di luce solare.
In fondo al corridoio c’era lo specchio. Coraline poteva vedere se stessa camminare verso di esso, e il suo riflesso le sembrava un po’ più coraggioso di quanto lei non si sentisse. Nello specchio non c’era altro. Solo una bambina in corridoio.
Una mano le toccò la spalla, e lei alzò lo sguardo. L’altra madre guardò Coraline dall’alto, con i suoi grossi e neri occhi-bottone.
— Coraline, tesoro mio — disse. — Pensavo che forse avremmo potuto fare qualche gioco insieme, ora che sei tornata dalla tua passeggiata. Campana? Monopoli? Carte?
— Tu nello specchio non c’eri — disse Coraline.
L’altra madre sorrise. — Degli specchi — disse — non bisogna mai fidarsi. Allora, a che gioco giochiamo?
Coraline scosse la testa. — Con te non ci voglio giocare — disse. — Io voglio tornare a casa e stare insieme ai miei veri genitori. Voglio che tu li lasci liberi. Che ci lasci liberi tutti.
L’altra madre scosse la testa, molto lentamente. — Più pungente del dente di una serpe — disse — è l’ingratitudine di una figlia. Tuttavia, l’amore può piegare anche l’animo più orgoglioso. — E le sue lunghe e bianche dita si mossero, accarezzando l’aria.
— Io non ho in programma di volerti bene — disse Coraline. — Sia quel che sia. Non puoi mica costringermi a volerti bene.
— Parliamone — disse l’altra madre, voltandosi ed entrando nel salotto. Coraline le andò dietro.
L’altra madre si sedette sul grande sofà. Prese una borsetta marrone che era posata di lato al divano e ne estrasse un bianco, frusciante sacchetto di carta.
Quindi tese il sacchetto verso Coraline. — Ne vuoi uno? — le domandò in tono cortese.
Aspettandosi di trovarci dei bonbon, Coraline guardò nel sacchetto, pieno a metà. Dentro c’erano grossi e lucidi scarafaggi, che strisciavano uno sopra l’altro nel tentativo di uscire.
— No — disse Coraline. — Non ne voglio nessuno.
— Contenta tu! — disse l’altra madre. Con molta attenzione, scelse uno scarafaggio particolarmente grosso e nero, gli strappò le zampe (che fece cadere ordinatamente in un grosso portacenere di vetro posato sul tavolinetto basso), e se lo mise in bocca. Quindi lo sgranocchiò felice.
— Squisito — disse. E ne prese un altro.
— Tu sei matta — disse Coraline. — Matta, cattiva e strampalata.
— È così che ti rivolgi a tua madre? — le domandò l’altra madre con la bocca piena di scarafaggi.
— Tu non sei mia madre — ribatté Coraline.
L’altra madre ignorò questo commento. — Credo che tu ti sia un po’ sovreccitata, Coraline. Oggi pomeriggio potremmo ricamare un po’, oppure dipingere qualche acquerello. Poi ceneremo e dopo, se avrai fatto la brava, potrai giocare con i ratti prima di andare a letto. E io ti leggerò una storia e ti rimboccherò le coperte, e ti darò il bacio della buonanotte. — Le sue lunghe e bianche dita fluttuavano delicatamente, come una farfalla stanca, e Coraline rabbrividì.
— No — disse.
L’altra madre sedeva sul divano. La sua bocca disegnava una linea retta, interrotta da una smorfia. Si infilò tra le labbra un altro scarafaggio e poi un altro ancora, come se tenesse in mano un sacchetto di uva passa ricoperta di cioccolato. I suoi grossi e neri occhi-bottone guardavano dritto negli occhi nocciola di Coraline. I capelli neri e lucidi le svolazzavano sul collo e sulle spalle, come se stesse soffiando un vento che Coraline non poteva né sentire né percepire.
Si fissarono negli occhi per oltre un minuto. Poi, l’altra madre disse: — Educazione! — Richiuse il sacchetto di carta bianca con molta cura, in modo che nessuno scarafaggio potesse scappare, e lo rimise nella borsa. Quindi si tirò su, e su, e su: sembrava più alta di quanto Coraline ricordasse. Infilò una mano nella tasca del grembiule e ne estrasse la chiave nera, che guardò con aria aggrondata e poi gettò nella borsetta, quindi tirò fuori una minuscola chiave argentata e la sollevò con fare trionfante. — Ecco qua — disse. — Questa è per te, Coraline. Per il tuo stesso bene. Perché io ti voglio bene. Per insegnarti le buone maniere. È l’educazione che distingue l’uomo, in fin dei conti.
Ricondusse Coraline nel corridoio, avanzando verso lo specchio che era in fondo. Quindi infilò la minuscola chiave nell’intelaiatura dello specchio e girò.
Lo specchio si aprì come una porta, rivelando uno spazio buio. — Potrai uscire di qua solo quando avrai imparato un po’ di buone maniere — le disse l’altra madre. — E quando sarai pronta a diventare una figlia adorabile.
Tirò su Coraline e la spinse nell’oscuro spazio dietro lo specchio. Un frammento di scarafaggio pendeva dal labbro inferiore dell’altra madre, e i suoi neri occhi-bottone erano del tutto inespressivi.
Quindi richiuse la porta-specchio, lasciando Coraline al buio.
VII
Coraline sentiva che un pianto disperato stava sgorgando da qualche parte dentro di lei. Ma riuscì a frenarsi in tempo. Inspirò profondamente e poi espirò. Tese le mani per calcolare lo spazio in cui si trovava prigioniera. Era grande quanto un ripostiglio per le scope: sufficientemente alto per starci in piedi oppure seduta, ma non abbastanza largo o profondo da potercisi sdraiare.
Una parete era di vetro, e al tatto si rivelò gelida.
Perlustrò lo stanzino una seconda volta, passando le mani su ogni superficie raggiungibile, alla ricerca di maniglie o interruttori o chiavistelli camuffati — una possibile via d’uscita — ma non trovò nulla.
Poi la sua mano sfiorò qualcosa che assomigliava alla guancia o alle labbra di qualcuno, piccole e fredde, e una voce le sussurrò nell’orecchio: — Shh! Taci. Non dire una parola, la megera potrebbe sentire!
Coraline non fiatò.
Sentì una mano fredda sul viso, dita che le correvano sulla pelle come il battito delicato delle ali di una falena.
Un’altra voce, titubante e così flebile che Coraline si domandò se non la stesse immaginando, disse: — Tu sei… tu sei viva?
— Sì — sussurrò Coraline.
— Povera bambina — disse la prima voce.
— Chi siete? — domandò Coraline con un bisbiglio.
— Nomi, nomi, nomi — disse un’altra voce lontana. — I nomi sono la prima cosa che se ne va, dopo il respiro, dopo il battito del cuore. Noi conserviamo i ricordi più a lungo dei nostri nomi. Ancora rivedo le immagini della mia governante in certe mattine di maggio, mentre portava il mio cerchio e la mia bacchetta, e il sole del mattino dietro di lei, e i tulipani che dondolavano al vento. Ma il nome della mia governante l’ho dimenticato, e anche quello dei tulipani.
— Non credo che i tulipani abbiano un nome — disse Coraline. — Sono tulipani e basta.
— Può darsi — disse mestamente quella voce. — Ma io ho sempre creduto che un nome dovessero averlo. Erano rossi, e rossi e arancio, e rossi e arancio e gialli, come i tizzoni del focolare di una stanza dei bambini in una sera d’inverno. Io me li ricordo.