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Coraline aprì la mano e guardò il sassolino con il buco, sperando invano di trovarci un indizio. La gran parte dei giocattoli erano strisciati a nascondersi sotto il letto, e quei pochi rimasti (un soldatino di plastica verde, la biglia, uno yo-yo rosa shocking, e roba simile) erano proprio quel genere di cose che nel mondo reale si trovano appunto sul fondo di una scatola di giocattoli: oggetti dimenticati, abbandonati o non amati.

Stava per uscire dalla stanza e andare a cercare altrove. Ma poi si ricordò di una delle voci del buio, una dolce voce sussurrante, e di ciò che le aveva detto di fare. Sollevò il sasso e lo tenne fermo davanti all’occhio destro. Chiuse l’occhio sinistro e guardò la stanza attraverso il buco.

Visto così il mondo era grigio e incolore, come un disegno fatto a matita. Tutto era grigio… no, non proprio tutto. Qualcosa scintillava sul pavimento, qualcosa che aveva il colore di un tizzone nel caminetto di una nursery, il colore di un tulipano scarlatto-e-arancio che annuiva sotto il sole di maggio. Coraline tese la mano sinistra, temendo che se avesse tolto l’occhio dal sasso tutto sarebbe scomparso, e cercò di prendere l’oggetto che ardeva.

Le sue dita si strinsero intorno a qualcosa di liscio e freddo, e lo raccolsero in tutta fretta. Quindi abbassò il sassolino e guardò giù. Nella palma rosea della sua mano c’era la grigia, opaca biglia di vetro che poco prima si trovava in fondo alla scatola dei giocattoli. Portò il sassolino all’occhio, e attraverso il foro guardò di nuovo la biglia. E di nuovo la biglia tornò ad ardere e tremolare, colorata di rosso fuoco.

Una voce le sussurrò nella mente: — Infatti, signora, adesso mi sovviene che ero un maschio, a pensarci bene. Oh, ma devi fare in fretta. Te ne restano altre due da trovare, e la megera ce l’ha già con te perché sei riuscita a trovarmi.

Se devo farlo, pensò Coraline, non lo farò di certo con i suoi vestiti addosso. Si rimise il suo pigiama, la vestaglia e le pantofole, lasciando il maglione grigio e i jeans neri ben piegati sul letto, e gli stivali arancione sul pavimento accanto alla scatola dei giocattoli.

Mise la biglia nella tasca della vestaglia e uscì in corridoio.

Qualcosa le punse il viso e le mani, come la sabbia che soffia sulla spiaggia in una giornata ventosa. Si coprì gli occhi e continuò ad avanzare.

Le punture peggiorarono e camminare diventò sempre più difficile, come se stesse procedendo controvento in una giornata di tramontana particolarmente impetuosa. Era un vento violento, e gelido.

Fece un passo indietro, verso il punto di partenza.

— Oh, va’ avanti — le sussurrò una voce spettrale nell’orecchio. — Perché la megera è arrabbiata.

Avanzò nel corridoio, affrontando un’altra folata di vento che le ferì le guance e il viso con una sabbia invisibile, pungente come spilli, tagliente come vetro.

— Gioca senza barare — gridò Coraline nel vento.

Non ci fu nessuna risposta, ma il vento capriccioso la sferzò ancora una volta, e poi diminuì e cessò del tutto. Passando davanti alla cucina, Coraline riuscì a sentire, nell’improvviso silenzio, l’acqua che continuava a gocciolare dal rubinetto che perdeva, o forse le lunghe unghie dell’altra madre che battevano impazienti sul tavole. Ma resistette alla tentazione di guardare.

Con due lunghe falcate, raggiunse la porta di casa e uscì fuori.

Scese le scale e girò intorno all’edificio finché non si trovò davanti alla porta delle altre Miss Spink e Miss Forcible. Le lampadine ormai si accendevano e spegnevano quasi a casaccio, componendo parole che Coraline non riusciva a decifrare. La porta era chiusa. Le venne il timore che fosse chiusa a chiave, così la spinse con tutta la forza che aveva in corpo. Al principio sembrava bloccata, poi di colpo cedette e, con uno scatto, Coraline incespicò nella stanza buia, oltre la soglia.

Strinse una mano intorno al sassolino con il buco e avanzo nell’oscurità. Si aspettava di trovare un’anticamera preceduta da una tenda, ma non c’era assolutamente niente. La stanza era buia. Il teatro era vuoto. Avanzò guardinga. Sentì un fruscio sopra di se. Alzo lo sguardo verso il buio pesto e inciampò in qualcosa. Si chinò, raccolse una torcia, la accese e fece oscillare il fascio di luce per la stanza.

Il teatro era fatiscente e in stato di abbandono. Le poltrone giacevano rotte sul pavimento e antiche e polverose ragnatele formavano drappeggi sulle pareti, pendendo dal legno marcio e dalla tappezzeria di velluto in decomposizione.

Sentì un altro fruscio. Indirizzò il fascio di luce verso l’alto, verso il soffitto. Lassù c’erano delle cose prive di peli e gelatinose. Pensò che forse un tempo avevano posseduto una faccia, che un tempo erano state dei cani; ma nessun cane aveva ali da pipistrello, o poteva restare appeso a testa in giù come i ragni, come i pipistrelli.

La luce spavento quelle creature e una di loro spiccò il volo, con un pesante frullo d’ali nella polvere. Coralme chinò la testa mentre le passava vicino. Andò a posarsi su una parete lontana e cominciò ad arrampicarsi di nuovo, sempre a testa in giù, verso il nido dei cani-pipistrello sul soffitto.

Coraline si portò il sassolino all’occhio e scandagliò la stanza attraverso il buco, alla ricerca di qualcosa che brillasse o scintillasse, un segno rivelatore che da qualche parte vi fosse un’altra anima nascosta. Accompagnò la ricerca con il fascio di luce della torcia, e la fitta polvere sospesa nell’aria sembrava quasi solida. Sulla parete in fondo al palcoscenico in rovina c’era qualcosa. Era di un bianco-grigiastro, grande il doppio di Coraline, appiccicata sul muro come una lumaca. La bambina fece un respiro profondo. Io non ho paura, si disse. Assolutamente no. Non ci credeva affatto, ma si arrampicò fin sopra il vecchio palcoscenico, le dita che affondavano nel legno marcio mentre cercava di issarsi.

Quando fu più vicina alla cosa sulla parete, vide che era una specie di sacca, come il guscio di un uovo di ragno. La cosa si contorse alla luce della torcia. All’interno della sacca c’era qualcosa che assomigliava a una persona, ma con due teste e il doppio delle braccia e delle gambe che avrebbe dovuto avere.

La creatura sembrava spaventosamente informe e incompleta, come se due figure di plastilina fossero state lavorate insieme e compresse in un’unica forma.

Coraline esitò. Non voleva avvicinarsi a quella cosa. I cani-pipistrello si staccarono dal soffitto a uno a uno e cominciarono a volteggiare in cerchio nella stanza, avvicinandosi a lei, ma senza mai sfiorarla.

Forse qui non ci sono anime nascoste, pensò. Forse potrei andarmene e provare da un’altra parte. Guardò per l’ultima volta attraverso il buco nel sassolino: il teatro abbandonato era ancora d’un tetro grigio, ma adesso c’era un bagliore marrone, intenso e luminoso come legno di ciliegio lucidato, che veniva dall’interno della sacca. Di qualunque cosa si trattasse, l’oggetto luminoso era stretto in una delle mani della figura con due teste.

Coraline attraversò lentamente il palcoscenico umido, mettendocela tutta per tare il minor rumore possibile, nel timore che, se avesse disturbato la cosa nella sacca, questa avrebbe aperto gli occhi, l’avrebbe vista e a quel punto…

Ma non le veniva in mente nulla che fosse più spaventoso di quella cosa che la guardava. Il cuore le batteva fortissimo nel petto. Fece un altro passo in avanti.

Non aveva mai avuto tanta paura, tuttavia continuò ad avanzare finché raggiunse la sacca. Quindi infilò la mano in quel biancore appiccicoso aggrappato al muro, che crepitò appena appena, come un focherello, e le si appiccicò sulla pelle e sui vestiti come una ragnatela, come candido zucchero filato. Affondò la mano fino a toccare dita gelide, che, lo sentiva benissimo, erano chiuse intorno a una biglia di vetro. La pelle della creatura era viscida, come ricoperta di gelatina. Coraline tirò forte la biglia.