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All’inizio non accadde nulla; l’oggetto rimase ben saldo nella presa della creatura. Poi, un dito alla volta, la presa si allentò e la biglia scivolò nella mano di Coraline, che ritrasse il braccio liberandolo dalla membrana appiccicosa, sollevata dal fatto che la creatura non aveva aperto gli occhi. Puntò la luce della torcia sulle due facce: assomigliavano, pensò, a due versioni giovanili di Miss Spink e Miss Forcible, ma distorte e spiaccicate, come due grumi di cera che si fossero sciolti e fusi insieme, in un unico ripugnante oggetto.

Senza preavviso, una delle mani della creatura tentò di agguantare il braccio di Coraline. Le unghie le graffiarono la pelle, ma era troppo scivolosa per poter fare presa, e la bambina riuscì a ritrarsi in tempo. E poi gli occhi si aprirono — quattro bottoni neri che brillavano guardandola dall’alto — e due voci diverse da qualsiasi voce Coraline avesse mai sentito cominciarono a parlare. Una gemeva e sussurrava, l’altra ronzava come un grasso e arrabbiato moscone sul vetro di una finestra. E le voci dissero, come se fossero una sola: — Ladra! Restituiscila! Falla finita! Ladra!

L’aria venne smossa dai cani-pipistrello. Coraline cominciò a indietreggiare. Ormai si era resa conto che, per quanto quella cosa sulla parete (la cosa che una volta era stata le altre Miss Spink e Miss Forcible) fosse terrificante, era attaccata al muro tramite la tela, incapsulata nel suo bozzolo. Non poteva seguirla.

I cani-pipistrello battevano le ali e fluttuavano intorno a lei, ma non tentarono di farle del male. Lei scese giù dal palcoscenico e alla luce della torcia ispezionò il vecchio teatro, alla ricerca dell’uscita.

— Fuggi, signorina — disse la voce lamentosa di una ragazzina nella sua testa. — Fuggi, adesso. Hai trovato due di noi. Fuggi da questo luogo fintantoché il sangue ti scorre ancora nelle vene.

Coraline fece cadere la biglia nella sua tasca, accanto all’altra. Localizzò la porta, corse verso di essa e la tirò finché non si aprì.

IX

Fuori di lì, il mondo era diventato un’informe, vorticosa foschia senza sagome né ombre, mentre la casa sembrava essersi contratta e allungata. Coraline ebbe la sensazione che si fosse acquattata e la stesse guardando, come se non fosse veramente un edificio, ma solo l’idea di una casa… e la persona che aveva avuto quest’idea, ne era certa, non era affatto buona. Sul suo braccio era ancora attaccata una specie di tela appiccicaticcia, che cercò di togliere come meglio poté. Le finestre grigie della casa erano stranamente inclinate.

L’altra madre la stava aspettando, in piedi sull’erba e a braccia conserte. I neri occhi-bottone erano inespressivi, ma le labbra serrate rivelavano una furia gelida.

Quando vide Coraline, tese una lunga mano bianca e piegò un dito. Coraline andò verso di lei. L’altra madre non disse nulla.

— Ne ho trovate due — disse Coraline. — Mi manca ancora un’anima.

L’espressione dell’altra madre non cambiò minimamente. Forse non aveva sentito quel che la bambina le aveva detto.

— Be’, pensavo che volessi saperlo — disse Coraline.

— Grazie, Coraline — disse l’altra madre in tono freddo, con una voce che non proveniva dalla sua bocca. Arrivava invece dalla foschia, dalla nebbia, dalla casa e dal cielo. E poi aggiunse: — Tu sai che ti voglio bene.

E, suo malgrado, Coraline fece segno di sì con la testa.

Era vero: l’altra madre le voleva bene. Però la amava come un avaro ama il denaro, o un drago ama l’oro. Negli occhi-bottone dell’altra madre, Coraline vide che lei era una sua proprietà, niente di più. Un animaletto il cui comportamento non la divertiva più.

— Non voglio il tuo amore — disse Coraline. — Da te non voglio proprio niente.

— Nemmeno una mano? — le domandò l’altra madre. — In fin dei conti, te la stai cavando alla grande. Credevo che volessi un piccolo indizio, per aiutarti nell’ultima parte della caccia al tesoro.

— Me la cavo benissimo da sola — disse Coraline.

— Sì — disse l’altra madre. — Ma se mai volessi entrare nell’appartamento che dà sul davanti — quello vuoto — per dare un’occhiata in giro, troveresti la porta chiusa a chiave, e a quel punto che faresti?

— Oh. — Coraline ci rifletté su per un momento. Poi disse: — C’è una chiave?

L’altra madre rimase impassibile, nella nebbia grigiastra di quel mondo che rendeva piatta ogni cosa. I capelli neri le svolazzavano intorno alla testa, come se fossero dotati di mente e volontà autonome. Fece un colpo di tosse, improvviso e profondo, e solo dopo aprì la bocca.

L’altra madre alzò una mano e si tolse dalla lingua una piccola chiave di ottone.

— Tieni — le disse. — Per entrare avrai bisogno di questa.

E, con un gesto indifferente, lanciò la chiave a Coraline, che la afferrò con una sola mano, prima ancora di decidere se la volesse oppure no. La chiave era ancora leggermente bagnata.

Un vento gelido soffiò su di loro. A Coraline vennero i brividi e distolse lo sguardo. Quando tornò a guardare, era rimasta sola.

Dubbiosa, girò intorno alla casa finché raggiunse la facciata e si fermò di fronte alla porta dell’appartamento vuoto. Come tutte le altre porte, era dipinta d’un verde brillante.

— Non è affatto in buona fede, quella — le sussurrò una voce spettrale nell’orecchio. — Secondo noi non ti aiuterà. È solo un trucco.

Coraline disse: — Sì, avete ragione. È quello che mi aspetto anch’io. — Quindi infilò la chiave nella serratura e girò.

Senza cigolare, la porta si spalancò e Coraline varcò la soglia, in silenzio.

Le pareti dell’appartamento erano colore del latte vecchio. Le assi di legno del pavimento erano prive di moquette e polverose, con i segni e i motivi dei vecchi tappeti e delle vecchie moquette che c’erano state in passato.

Non c’era nemmeno un mobile, ma si distinguevano i punti un tempo occupati dai mobili. Alle pareti non c’erano decorazioni, solo rettangoli sbiaditi là dove una volta erano stati appesi quadri e fotografie. C’era un tale silenzio che Coraline ebbe l’impressione di sentire il rumore che facevano i granelli di polvere scivolando nell’aria.

Ed ebbe paura che qualcosa sbucasse fuori all’improvviso e la aggredisse, così si mise a fischiare. Pensò che, fischiando, avrebbe reso più difficile un’aggressione.

Per prima cosa ispezionò la cucina vuota. Poi passò in rassegna il bagno vuoto, che conteneva solo una vasca di ghisa e un ragno morto, grosso quanto un gattino. L’ultimo locale che perlustrò doveva essere stato una stanza da letto; si immaginò che quell’ombra di polvere rettangolare sulle assi del pavimento corrispondesse al letto che c’era stato una volta. Poi vide qualcosa e sorrise, torvamente. Incastrato fra le assi del pavimento c’era un grosso anello di metallo. Si inginocchiò e afferrò il gelido anello con le mani, quindi lo tirò verso l’alto, con tutta la forza che aveva.

Con incredibile lentezza, rigidità e pesantezza, una porzione quadrata di pavimento, dotata di cardini, si sollevò: era una botola. Si sollevò e attraverso l’apertura Coraline non vide altro che buio. Si chinò e con la mano trovò un interruttore freddo al tatto. Ne spinse il pulsante, senza sperare troppo che avrebbe funzionato, ma da qualche parte sotto di lei si accese una lampadina, e una debole luce gialla si diffuse dal buco nel pavimento. Vide dei gradini che scendevano, ma nient’altro.

Coraline si mise la mano in tasca e tirò fuori il sassolino. Guardò la cantina attraverso il buco ma non vide nulla. Si rimise il sasso in tasca.

Dalla botola nel pavimento arrivava l’odore dell’argilla fresca e di qualcos’altro, un sentore intenso e acre, come di aceto.