Il ginocchio sinistro era graffiato e sbucciato, il palmo della mano che aveva teso in avanti per proteggersi dalla caduta era un impiastro di graffi e brecciolina. Le faceva un po’ male e presto, Coraline lo sapeva, gliene avrebbe fatto molto di più. Si tolse la brecciolina dal palmo e si rimise in piedi, poi a tutta velocità, sapendo che tanto aveva perso e che ormai era troppo tardi, scese l’ultima rampa fino al piano terra.
Si guardò intorno alla ricerca del ratto, ma era sparito, e con lui anche la biglia.
La mano le bruciava nei punti in cui si era scorticata, mentre dal ginocchio, attraverso la gamba del pigiama strappato, le colava un rivolo di sangue. Era la stessa terribile situazione di quell’estate in cui la sua vera madre le aveva tolto le rotelle dalla bicicletta; allora, però, nonostante i tagli e i graffi (le sue ginocchia erano fatte di strati e strati di croste), Coraline aveva provato la sensazione di avere raggiunto un traguardo. Stava imparando a fare qualcosa, qualcosa che prima non sapeva fare. Adesso, invece, non provava altro che una sensazione di gelida sconfitta. Aveva tradito i bambini-fantasma. Aveva tradito i suoi genitori. Aveva tradito se stessa, tradito tutto.
Chiuse gli occhi e si augurò che la terra la inghiottisse.
Si sentì un colpo di tosse.
Riaprì gli occhi e vide il ratto. Era disteso sul vialetto pavimentato di mattoni in fondo alle scale, con un’espressione di sorpresa sul muso, che ormai si trovava a svariati centimetri di distanza dal resto del corpo. I baffi erano rigidi, gli occhi sbarrati, i denti in mostra, gialli e aguzzi. Un colletto di sangue caldo gli scintillava intorno al collo.
Accanto al ratto decapitato, con un’espressione saccente, c’era il gatto nero. Con una zampa teneva ferma la grigia biglia di vetro.
— Credo di avertelo già detto — esordi il gatto — i ratti non mi piacciono. Mi era sembrato, comunque, che questa ti servisse. Spero che non ti dispiaccia se mi sono intromesso.
— Credo — disse Coraiine, cercando di riprendere fiato — credo che… una cosa del genere… sì… tu possa averla detta.
Il gatto tolse la zampa dalla biglia, che rotolò verso Coraiine. Lei la raccolse. Nella sua mente un’ultima voce le sussurrò, pressante: — Lei ti ha mentito. Adesso che ti ha in pugno, non ti lascerà mai più andare. Non cambierà mai, non lascerà libero nessuno di noi. — A Coraline venne la pelle d’oca sulla nuca e capì che quella voce di ragazzina le stava dicendo la verità. Mise la biglia nella tasca della vestaglia, insieme alle altre.
Adesso le aveva tutte e tre.
Non le restava che trovare i suoi genitori.
E si rese conto che era facile. Sapeva esattamente dove si trovavano. Se solo si fosse fermata a riflettere, l’avrebbe capito sin dall’inizio. L’altra madre non poteva creare. Poteva solo trasformare, deformare, cambiare.
E la mensola del caminetto, nel salotto della sua vera casa, era praticamente vuota. Ma appena lo capì si rese conto anche di qualcos’altro.
— L’altra madre. Non ha nessuna intenzione di mantenere la parola. Non ci lascerà liberi — disse Coraline.
— Non mi meraviglia — ammise il gatto. — Come ho già detto, non c’è garanzia che lei giochi pulito. — Quindi alzò la testa. — Ehi, sveglia… ma hai visto?
— Cosa?
— Guarda dietro di te — disse il gatto.
La casa si era appiattita ancora di più. Non sembrava più una fotografia, ma un disegno, anzi il rozzo scarabocchio di una casa, tracciato a carboncino su un foglio di carta grigia.
— Qualunque cosa stia succedendo — disse Coraline — grazie per avermi aiutata. Credo di essere quasi alla fine, no? Perciò tu va’ pure nella foschia o dovunque sia il tuo posto, e io, be’, spero di rivedere casa mia. Se mai lei mi permetterà di tornarci.
Il gatto aveva il pelo dritto e la coda alzata come la spazzola di uno spazzacamino.
— Che problema c’è? — domandò Coraline.
— Sono sparite — rispose il gatto. — Non ci sono più. Le entrate e le uscite di questo posto. Si sono annullate.
— È un male?
Il gatto abbassò la coda, facendola oscillare furiosamente da parte a parte. Si senti una specie di brontolio sommesso provenire dalla sua gola. Poi si mise a camminare in circolo, andando a strofinarsi sulla gamba di Coraline. Lei abbassò una mano per accarezzarlo, e sentì quanto forte gli batteva il cuore. E tremava come una foglia morta al vento.
— Non ti succederà niente — disse Coraline. — Si sistemerà ogni cosa. E io ti porterò a casa.
Il gatto non disse nulla.
— Andiamo, gatto — disse Coraline. E fece un passo indietro verso le scale, ma il gatto non si mosse, con l’aria affranta. Sembrava molto più piccolo.
— Se l’unico modo per andarsene è quello di passare davanti a lei — disse Coraline — allora è da quella parte che passeremo. — Tornò dal gatto, si chinò e lo prese in braccio. Lui non oppose resistenza. Continuò semplicemente a tremare. Coraline gli mise una mano sotto le zampe posteriori e gli fece appoggiare quelle anteriori sulla sua spalla. Il gatto era pesante, ma non tanto da non poterlo trasportare. Lui le leccò il palmo della mano, nel punto in cui le usciva il sangue dalla ferita. Coraline salì le scale una alla volta, diretta al proprio appartamento. Sentiva le biglie tintinnare in tasca, sentiva il sasso con il buco, sentiva il gatto che le si stringeva addosso.
Arrivata davanti alla porta di casa — ormai ridotta allo scarabocchio di una porta disegnata da un bambino — spinse con una mano, aspettandosi quasi di trapassarla e di trovarci dietro nient’altro che il buio e una manciata di stelle.
Ma la porta si aprì e Coraline entrò.
XI
Una volta dentro, nel suo appartamento, o meglio, nell’appartamento che non era suo, Coraline fu contenta di vedere che non si era trasformato in un disegno vuoto, come il resto della casa. L’appartamento aveva ombre e profondità, e fra le ombre c’era qualcuno in piedi ad aspettare il suo ritorno.
— Allora sei tornata — le disse l’altra madre. Dal tono non sembrava affatto contenta. — E sei venuta con un parassita.
— No — disse Coraline. — Sono venuta con un amico. — Sentì il gatto irrigidirsi, come se fosse ansioso di andarsene da lì. Coraline avrebbe voluto stringerlo a sé come un orsacchiotto, come qualcosa di rassicurante, ma sapeva che il gatto odiava essere stretto, e immaginò che i gatti spaventati avessero la tendenza a mordere e graffiare se provocati, anche se stavano dalla tua parte.
— Sai che ti voglio bene — disse l’altra madre in un tono di voce inespressivo.
— Bel modo di dimostrarlo — ribatté Coraline. Si incamminò lungo il corridoio, poi entrò in salotto, a passo costante, fingendo di non avvertire gli occhi neri e inespressivi dell’altra madre puntati sulla sua schiena. I mobili solenni di sua nonna erano ancora lì, e anche il dipinto con quella strana frutta sulla parete (ma adesso la frutta era stata mangiata, e tutto ciò che restava nella fruttiera era il torsolo marrone di una mela, alcune prugne, il nocciolo di una pesca, il raspo di quello che era stato un grappolo d’uva). Il tavolo con i piedi di leone dominava la moquette con le sue zampe di legno artigliate, come se fosse impaziente per qualcosa. In fondo alla stanza, nell’angolo, c’era la porta di legno, che prima, in un altro luogo, aveva aperto su un nudo muro di mattoni. Coraline cercò di non guardarla. Dalla finestra non si vedeva altro che nebbia.
Ci siamo, pensò. Ecco il momento della verità. Il tempo della rivelazione.
L’altra madre l’aveva seguita e si era fermata al centro della stanza, tra Coraline e la mensola del caminetto, con i neri occhi-bottone puntati sulla bambina. Che buffo, pensò Coraline. Non assomigliava nemmeno un po’ alla sua vera madre. Si domandò come avesse fatto a lasciarsi ingannare e a trovarci una somiglianza. L’altra madre era altissima — sfiorava quasi il soffitto con la testa — e molto pallida, il colore del ventre di un ragno. I capelli erano un groviglio, e i denti affilati come coltelli…