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— Tesoro, che bello! — disse Miss Spink. E poi aggiunse, in tono confidenziale: — Fa’ attenzione al vecchio pozzo. Il signor Lovat, che era qui prima di te, diceva che secondo lui era profondo anche più di mezzo miglio.

Coraline sperò che la mano non avesse sentito quest’ultima osservazione, quindi cambiò subito argomento. — Questa chiave? — disse a voce alta. — Oh, è solo una vecchia chiave di casa nostra. Mi serve per giocare. È per questo che me la porto dietro, attaccata a uno spago. Be’, arrivederci.

— Che bambina eccezionale — disse Miss Spink fra sé e sé, mentre chiudeva la porta.

Lentamente Coraline attraversò il prato in direzione del vecchio campo da tennis, dondolando la chiave nera appesa allo spago.

Più volte ebbe la sensazione di aver visto qualcosa color osso nel sottobosco. Si teneva a una decina di metri di distanza e teneva il suo passo.

Coraline provò a fischiare, ma non funzionò, così si mise a cantare forte una canzone che aveva inventato suo padre quando lei era piccolissima, e che l’aveva sempre fatta ridere. Diceva così:

Oh… Streghettina mia, la più bella che ci sia, ti darò pane tostato, ti darò tanto gelato. Ti darò baci e bacetti e poi tanti abbracci stretti; mai e poi mai farai un assaggio di un panin con scarafaggio.

Questa era la canzone che cantava mentre camminava senza fretta in mezzo al bosco, con la voce che non le tremava quasi per niente.

Le bambole che prendevano il tè erano rimaste dove le aveva lasciate. Si sentì sollevata dal fatto che non fosse una giornata di vento, perché tutto era rimasto esattamente al suo posto, con ogni tazza di plastica piena d’acqua a tenere ferma la tovaglia di carta, proprio come doveva essere. Coraline si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

Adesso arrivava la parte più difficile.

— Salve, bambole — disse in tono allegro. — È l’ora del tè!

E si avvicinò alla tovaglia. — Ho portato la chiave della fortuna — disse alle bambole. — Per essere certa che il nostro sarà un bel picnic.

E poi, con estrema delicatezza, si chinò e posò dolcemente la chiave sulla tovaglia. Senza mai mollare lo spago. Trattenne il fiato, sperando che le tazze con l’acqua tenessero ferma la tovaglia e non la lasciassero sprofondare nel pozzo, nonostante il peso della chiave.

La chiave era al centro della tovaglia. Coraline lasciò lo spago e fece un passo indietro. Adesso toccava alla mano.

Poi si rivolse alle bambole.

— Gradite una fetta di torta alle ciliegie? — domandò. — Jemima? Pinky? Primrose? — e, chiacchierando allegramente, servì a ogni bambola una fetta di torta invisibile su un piattino invisibile.

Con la coda dell’occhio vide qualcosa di bianco saltellare da un tronco all’altro, avvicinandosi sempre di più. Si sforzò di non guardare.

— Jemima! — disse Coraline. — Che bambina cattiva! Hai fatto cadere la torta! Adesso mi toccherà andare a prenderne un’altra fetta! — Fece il giro della tovaglia fino a trovarsi dall’altra parte, a portata della mano. Finse di pulire via la torta rovesciata e poi ne diede un’altra fetta a Jemima.

Poi, con uno sgambettare veloce e stridente, eccola arrivare: la mano, in corsa sulla punta delle dita, a tentoni attraverso l’erba alta e sopra una ceppaia. Per un istante si fermò lì, come un granchio che saggia l’aria, e poi, con uno schiocco di unghie, fece un salto trionfante al centro della tovaglia.

Per Coraline il tempo rallentò. Le bianche dita si richiusero intorno alla chiave…

Poi il peso e lo slancio della mano mandarono all’aria le tazze di plastica, e la tovaglia di carta, la chiave e la mano destra dell’altra madre ruzzolarono nel buio del pozzo.

Coraline contò lentamente, sottovoce. Dovette arrivare a quaranta prima di sentire un tonfo attutito che veniva da là sotto, in profondità.

Una volta, qualcuno le aveva detto che se guardi in su dal fondo del pozzo di una miniera, anche se è una giornata molto luminosa, si possono vedere il cielo notturno e le stelle. Coraline si domandò se la mano potesse vedere le stelle, da dove si trovava adesso.

Scaraventò di nuovo le pesanti tavole sul pozzo, coprendolo con molta cura. Voleva che non ci cadesse dentro nulla. Né voleva che nulla potesse venirne fuori. Poi rimise bambole e tazze nella scatola di cartone per portarle via. Mentre stava facendo questo, qualcosa richiamò la sua attenzione, e si tirò su in tempo per vedere il gatto nero che avanzava verso di lei, con la coda dritta e arricciata come un punto interrogativo. Era la prima volta che lo rivedeva dopo diversi giorni, da quando erano tornati dalla casa dell’altra madre.

Il gatto le si avvicinò e saltò sulle tavole che coprivano il pozzo. Poi, lentamente, le fece l’occhiolino.

Fece un salto nell’erba alta davanti a Coraline e si rotolò sulla schiena, dimenandosi come se fosse in estasi.

Lei gli grattò e solleticò il soffice pelo della pancia, e il gatto fece le fusa soddisfatto. Quando ne ebbe abbastanza, l’animale si rimise sulle zampe e se ne tornò verso il campo da tennis, come un minuscolo brandello di mezzanotte nel sole di mezzogiorno.

Coraline tornò a casa.

Il signor Bobo la stava aspettando nel vialetto d’accesso e le batté una mano sulla spalla.

— I topi mi dicono che è tutto a posto — disse. — Dicono che sei la nostra salvatrice, Caroline.

— È Coraline, signor Bobo — disse Coraline. — Non Caroline. Coraline.

— Coraline — disse il signor Bobo, ripetendo quel nome con meraviglia e rispetto. — Molto bene, Coraline. I topi dicono che non appena saranno pronti a esibirsi in pubblico, dovrai essere la prima spettatrice in assoluto del loro concerto. Suoneranno umpah umpah e tudle udle, e danzeranno e faranno mille numeri. Dicono proprio così.

— Molto volentieri — disse Coraline. — Quando saranno pronti.

Bussò poi alla porta di Miss Spink e Miss Forcible. Miss Spink la fece accomodare e Coraline entrò nel loro salottino. Depositò la scatola con le bambole sul pavimento. Poi si mise una mano in tasca e ne estrasse il sassolino con il buco.

— Ecco a voi — disse. — A me non serve più. Ve ne sono molto grata. Credo che mi abbia salvato la vita, e che abbia salvato altra gente dalla morte.

Abbracciò entrambe, nonostante non riuscisse a circondare interamente con le braccia l’ampia Miss Spink, mentre Miss Forcible aveva addosso l’odore dell’aglio crudo che stava sminuzzando. Poi Coraline prese la sua scatola di bambole e andò via.

— Che bambina eccezionale — disse Miss Spink. Nessuno l’aveva più abbracciata in quel modo, da quando aveva lasciato il teatro.

Quella notte Coraline giaceva nel suo letto, dopo essersi fatta il bagno e lavata i denti, con gli occhi aperti a fissare il soffitto.

Faceva abbastanza caldo e, ora che la mano non c’era più, aveva completamente spalancato la finestra della sua stanza. Aveva insistito con suo padre perché non le chiudesse del tutto le tende.

I nuovi vestiti che avrebbe indossato l’indomani per andare a scuola erano ordinatamente disposti sulla sedia.

Di solito, la notte prima dell’inizio del trimestre, Coraline era apprensiva e nervosa. Ma, si rese conto, a scuola non c’era più nulla che potesse farle paura.

Immaginò di sentire una dolce musica portata dall’aria della notte: il genere di musica che poteva essere eseguita solamente da minuscole trombe e minuscoli tromboni e fagotti, da ottavini e tube così piccole e delicate che i tasti potevano essere premuti solo dalle minuscole dita rosee dei topolini bianchi.