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— I topi?

— Quelli del piano di sopra.

Coraline non aveva mai visto un topo, se non alla televisione. Quasi quasi non vedeva l’ora. In fin dei conti, la giornata si stava rivelando piuttosto interessante.

Dopo pranzo, i suoi altri genitori lavarono i piatti e Coraline andò in fondo al corridoio dove si trovava la sua altra stanza da letto.

Era diversa da quella che aveva a casa. Tanto per cominciare era dipinta di una sgradevole tonalità di verde e rifinita in una singolare tonalità di rosa.

Coraline decise che non avrebbe voluto dormirci, ma che la combinazione di colori era molto più interessante di quella della sua cameretta.

C’erano anche un mucchio di cose straordinarie che non aveva mai visto prima: angeli con dentro un congegno a molla, che fluttuavano nella stanza come passerotti spaventati; libri con illustrazioni che si contorcevano, strisciavano e luccicavano; piccoli teschi di dinosauro che battevano i denti al suo passaggio. Una scatola piena di meravigliosi giocattoli.

Qui è meglio, pensò. Guardò fuori dalla finestra. Il panorama era identico a quello che vedeva dalla finestra della sua stanza: alberi, campi e, oltre i campi, sulla linea dell’orizzonte, lontane colline viola.

Una cosa nera attraversò velocissima il pavimento e scomparve sotto il letto. Coraline si mise ginocchioni e guardò. Cinquanta piccoli occhietti rossi le restituirono lo sguardo.

— Salve — disse Coraline. — Siete voi i topi?

Uscirono da sotto il letto battendo le palpebre per la troppa luce. Avevano il pelo corto e nero come la fuliggine, gli occhi piccoli e rossi, le zampette rosa che sembravano minuscole mani, la coda senza peli che assomigliava a un verme lungo e liscio.

— Sapete parlare? — domandò.

Il topo più grosso e più nero le rispose di no, scuotendo la testa. Il suo sorriso aveva un che di sgradevole, pensò Coraline.

— Bene — domandò — allora, cos’è che fate?

I topi formarono un cerchio.

Quindi cominciarono a salire uno sull’altro, con cautela ma con molta rapidità, finché non ebbero formato una piramide con in cima il topo più grosso.

I topi cominciarono a cantare, con voci acute ma sussurrate:

Abbiamo denti e abbiamo code Abbiamo code e abbiamo occhi Prima che tu cadessi qui eravamo Quando tu qui sarai noi ci alzeremo.

Non era una bella canzone. Coraline era quasi certa di averla già sentita da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove.

Quindi la piramide crollò e i topi cominciarono a sgambettare rapidi e neri in direzione della porta.

L’altro vecchio pazzo del piano di sopra era fermo sulla soglia, con un grande cappello nero fra le mani. I topi gli corsero rapidamente addosso, rintanandosi nelle sue tasche, nella camicia, su per le gambe dei pantaloni, giù per il collo.

Il topo più grosso si arrampicò sulle spalle del vecchio, raggiunse i lunghi baffi grigi, quindi passò davanti a quei grossi bottoni neri che erano gli occhi, e arrivò in cima alla testa.

Pochissimi secondi dopo, l’unica prova che i topi fossero mai stati lì era rappresentata dalle inquiete protuberanze sotto i vestiti dell’uomo, che continuavano a spostarsi da un punto all’altro del suo corpo; e c’era sempre il topo più grosso che da sopra la testa continuava a guardare giù verso Coraline, con i suoi occhietti di un rosso scintillante.

Il vecchio si mise il cappello in testa, e così scomparve anche l’ultimo topo.

— Salve, Coraline — disse l’altro vecchio del piano di sopra. — Ho sentito che eri qui. Per i topi è ora di cena. Ma se ti va, puoi salire con me e guardare mentre gli do da mangiare.

Negli occhi-bottone del vecchio c’era qualcosa di famelico che metteva a disagio Coraline. — No, grazie — rispose. — Vado fuori a esplorare.

Il vecchio annuì, molto lentamente. Coraline sentì che i topi bisbigliavano fra loro, ma non riuscì a capire cosa si stessero dicendo.

E comunque non era tanto sicura di volerlo sapere.

I suoi altri genitori erano fermi sulla soglia della cucina quando lei apparve nel corridoio, con gli stessi identici sorrisi di prima, e la salutarono lentamente con la mano. — Divertiti là fuori — le disse la sua altra madre.

— Noi ti aspettiamo qui — le disse il suo altro padre.

Quando Coraline arrivò alla porta di casa, si voltò a guardarli. La stavano ancora fissando, e la salutavano, e sorridevano.

Coraline uscì di casa e scese le scale.

IV

Dall’esterno la casa sembrava esattamente come prima. O quasi esattamente come prima; la porta di Miss Spink e Miss Forcible era incorniciata da lampadine rosse e blu che si accendevano e si spegnevano a intermittenza, formando delle parole; e le luci si rincorrevano tutt’intorno alla casa. Accese, spente, tutt’intorno. STRABILIANTE! era seguito da TRIONFO e poi da TEATRALE!!!

Era una giornata fredda ma con un bel sole, proprio come quella di prima.

Alle sue spalle ci fu un lieve rumore.

Si voltò. Sul muricciolo accanto a lei c’era un grosso gatto nero, identico al grosso gatto nero che aveva visto sui prati di casa.

— Buon pomeriggio — disse il gatto.

La sua voce sembrava quella che Coraline aveva in fondo alla testa, la voce che usava per immaginare delle parole, ma era la voce di un uomo, non di una ragazza.

— Salve — disse Coraline. — Ho visto un gatto uguale a te nel giardino di casa mia. Tu devi essere l’altro gatto.

Il gatto fece segno di no con la testa. — No — disse. — Io non sono l’altro di nessuno. Io sono io. — E piegò la testa di lato; i suoi occhi verdi luccicavano. — Voi persone siete dappertutto. E i gatti, dal canto loro, devono restare uniti. Non so se mi spiego.

— Immagino di sì. Ma se tu sei il gatto che ho visto a casa, com’è che sai parlare?

I gatti non hanno le spalle come gli esseri umani. Tuttavia, quel gatto fece spallucce, con un lieve movimento che partiva dalla punta della coda e terminava con un crescente vibrare dei baffi. — Io so parlare.

— A casa mia, i gatti non parlano.

— No? — disse il gatto.

— No — ribatté Coraline.

Il gatto saltò agilmente dal muricciolo e atterrò sull’erba, accanto ai piedi di Coraline. Poi alzò lo sguardo e la fissò.

— Be’, l’esperta in queste cose sei tu — disse seccamente il gatto. — In fin dei conti, io che ne posso sapere? Sono solo un gatto.

E cominciò ad allontanarsi, fiero, a testa e coda alta.

— Torna qui — gli disse Coraline. — Per piacere. Ti chiedo scusa. Davvero.

Il gatto si fermò, si mise a sedere e cominciò a lavarsi con molta cura, come se Coraline non ci fosse.

— Noi… noi potremmo diventare amici, sai — disse Coraline.

— Noi potremmo essere rari esemplari di un’esotica razza di elefanti ballerini africani — disse il gatto. — Però non lo siamo. Almeno — aggiunse con tono dispettoso, dopo aver lanciato un’occhiata alla bambina — io non lo sono.

Lei sospirò.

— Per favore. Come ti chiami? — domandò al gatto. — Senti, io mi chiamo Coraline. Okay?

Il gatto sbadigliò lentamente e con attenzione, rivelando una bocca e una lingua di un rosa sorprendente. — I gatti non hanno nome — disse.

— No?

— No — disse il gatto. — Voi persone avete il nome. E questo perché non sapete chi siete. Noi sappiamo chi siamo, perciò il nome non ci serve.

Quel gatto era egocentrico in modo irritante, decise Coraline. Come se si sentisse l’unica creatura importante di qualsiasi mondo o luogo.