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Con ossequi

M.H. Quilcon

Jim Ward restò seduto a lungo sul letto con la lettera dispiegata davanti a sé. Quella che era cominciata come una semplice ricerca d’informazioni si stava rivelando un vero e proprio rompicapo.

Chi era M.H. Quilcon?

Sembrava ovvio che Quilcon fosse il signor Herald, il banchiere e editore di giornali a tempo perso. I fascicoli del corso per corrispondenza erano certamente usciti dalla sua macchina per scrivere. Le probabilità che due macchine per scrivere avessero gli stessi quattro o cinque difetti nei caratteri erano infinitesime.

E Herald — se era Quilcon — doveva aver scritto quella lettera subito prima o subito dopo la sua visita. Anche quella lettera, in tutta evidenza, era uscita dalla vecchia Woodstock.

C’era qualcosa di affascinante in quell’enigma, e in più la sensazione di un che di sinistro, pensò Jim. Poi scoppiò a ridere, prendendosi in giro per quell’atmosfera da melodramma, e cominciò a rifare la valigia. C’era un treno a mezzanotte con cui poteva ripartire subito per Henderson.

Quando per la seconda volta arrivò a Henderson, era un pomeriggio rovente. L’unico membro del personale della stazione alzò gli occhi sorpreso, quando scese dal treno.

«Di nuovo qui? Credevo ci avesse rinunciato».

«Ho scoperto dove si trova il signor Quilcon. È all’Hortan Machine Works. Mi sa dire con precisione dove si trova?»

«Mai sentita nominare».

«Dovrebbe trovarsi circa due miglia fuori dell’abitato, sulla Balmer Road».

«È la strada principale che prosegue attraverso il distretto di Willow Creek. Li non ci sono fabbriche. Dev’essersi sbagliato di stato, signor mio. Oppure qualcuno la sta prendendo in giro».

«Lei pensa che il signor Herald potrebbe dirmi qualcosa su questa fabbrica di macchine? Voglio dire, lei sa se si occupa di macchine e di tutto ciò che le riguarda?»

«Buon Dio! Al vecchio Herald interssano soltanto i soldi e quel suo piccolo, stupido giornale. Macchinari! Non riuscirebbe ad agganciare niente di più complicato delle sue giarrettiere».

Jim si avviò lungo la strada principale, verso Wollow Creek. La Balmer Road ben presto si restrinse e svoltò, e Henderson ben presto scomparve dietro le alture. Il corso del Willow Creek era un nastro scintillante attraverso una distesa di prati.

Non c’era un posto più improbabile al mondo per una fabbrica di macchinari di qualsiasi genere, pensò Jim. Qualcuno gli stava giocando un incredibile scherzo. Ma in che modo, e perché avessero scelto proprio lui per farlo gli riusciva del tutto inspiegabile.

Ma allo stesso tempo sentiva, dentro di sé, che non era uno scherzo. C’era qualcosa di serio, di ben deciso ed efficace in tutta la faccenda. I principi della coordinazione d’energia suonavano giusti. Aveva sgobbato abbastanza su quelle lezioni per esserne convinto. Sentiva che, adesso, sarebbe stato quasi capace di costruire coi suoi soli mezzi un motore funzionante con la coordinazione d’energia… salvo per il fatto che non sapeva di dove derivasse l’energia. L’aria intorno a lui riverberava la luce del sole, nel silenzio rotto soltanto dal mormorio del ruscello e dal fruscio dei salici accanto ad esso. Jim trovò impossibile valutare il tempo e la distanza.

Si sforzò di fare passi sempre uguali e si mise a contarli finché non fu certo di aver percorso almeno due miglia. Si fermò e si guardò intorno quasi deciso a tornare indietro, riesaminando la strada già fatta.

Guardò davanti a sé. I suoi occhi scrutarono ogni più piccolo dettaglio della prateria tutt’intorno. E poi lo vide.

La luce del sole mandava barbagli come se si riflettesse su una superficie metallica. E in quella chiazza luminosa, appena leggibile per la distanza, c’era una scritta:

HORTAN MACHINE WORKS

Accantonando ogni giudizio sull’incongruità di una fabbrica di macchinari in quell’ambiente pastorale, attraversò il ruscello e s’incamminò attraverso l’erba verso il piccolo rialzo.

Quando fu vicino, la fabbrica parve essere una semplice struttura a forma di cupola, di circa dieci metri di diametro, con una porta aperta su un lato. Si avvicinò ad essa con la mente preparata ad ogni sorpresa. La scritta rozzamente tracciata sopra la porta sembrava opera d’un imbianchino in stato di ebbrezza alcoolica.

Jim entrò in un locale fiocamente illuminato e mise giù la sua valigia sul pavimento, accanto a uno stretto banco che si allungava tutt’intorno alla stanza.

Utensili e altri arnesi di foggia insolita erano appoggiati sul banco e appesi alle pareti. Attese un po’, ma non comparve nessuno.

Poi notò una porta interna e una ripida rampa a spirale che conduceva giù, in un seminterrato. Superò la porta e, un po’ camminando, un po’ scivolando, scese di sotto.

Qui ebbe modo di notare che c’era una illuminazione artificiale dovuta a tubi fluorescenti dal curioso aspetto. Ma ancora non si vedeva segno di anima viva, e non c’era un solo oggetto in quella stanza che gli apparisse familiare. Qua e là erano appoggiati alle pareti strani affari che in modo vago assomigliavano a mobili. Jim si sentì a disagio in tutta quella stranezza e stava per risalire la ripida rampa quando udì una voce.

«Sono il signor Quilcon. È lei, signor Ward?»

«Sì. Lei… dov’è?»

«Mi trovo nella stanza accanto. Non potrò uscire finché non avrò finito un lavoro che ho appena incominciato. Le dispiace proseguire fino al piano inferiore? Laggiù troverà i macchinari danneggiati. La prego di mettersi subito al lavoro. Sono certo che lei capirà subito ciò che va fatto. Io la raggiungerò fra un attimo».

Esitando, Jim si girò verso l’altro lato della stanza dove vide una seconda rampa che portava ancora più in basso, in un locale vividamente illuminato. Si guardò intorno ancora una volta, poi scese la seconda rampa.

Questa nuova stanza aveva il soffitto molto alto e un diametro un po’ maggiore delle precedenti, ed era quasi del tutto occupata dalle macchine.

La principale struttura del motore era formata da alte sagome simili a torrioni metallici disposti a brevi intervalli e con rigonfiamenti bulbo a una certa altezza. Formavano un cerchio compatto, con strette passerelle radiali che passavano tra essi.

Per un lungo attimo Jim sostò a esaminare queste torri, che s’innalzavano fin quasi a sette metri dal pavimento. Tutte le varie parti di quello strano corso per corrispondenza, ogni singolo paragrafo da lui mandato a memoria, parvero scivolare al posto giusto in un singolo, grande mosaico. I diagrammi, i disegni di macchine, che gli erano parsi incomprensibili, ora chiarirono davanti a lui strutture e funzioni. Ora sapeva esattamente a cosa serviva ogni singola parte, e come funzionava l’intero motore. Spremette il suo corpo lungo le strette passerelle che passavano in mezzo alle torri e s’insinuò fino al centro della grande macchina composita. La sua gamba malata gli rese difficile la cosa, ma alla fine raggiunse la struttura danneggiata.

Uno dei tubi si era spaccato, aprendosi sotto un tremendo sforzo, e oltre la fenditura Jim poteva intravedere il prodigioso intrico dei cavi che lo riempivano. Cavi che adesso in buona parte erano bruciati e ridotti a una massa fusa. Il danno era avvenuto in uno dei circuiti di controllo, e ciò bloccava il funzionamento dell’intera macchina, ma Jim sapeva che la riparazione non sarebbe stata difficile.