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In fondo allo scatolone trovò una cartella gialla fermata da un elastico. Pensando lì per lì che contenesse le foto restanti della Santa Rosa, la estrasse e si affrettò ad aprirla. Dalla cartella scivolò, cadendo a terra, una foto 8 X 11 di una bella donna sui trent’anni passati da poco. Accompagnavano la foto appunti manoscritti, qualche lettera imbustata, e una ventina di fogli dattiloscritti a doppio spazio. Com’era possibile che non avesse riconosciuto quella cartella?, pensò Nick con un sospiro.

La donna della foto aveva lunghi capelli neri con un vago riflesso lucido sulla fronte, e portava una camicetta di cotone rosso-scuro, che, aperta in alto, rivelava un triplice filo di perle. In inchiostro blu, contrastante col rosso della camicetta, qualcuno aveva vergato, nell’angolo inferiore destro della foto e con splendida calligrafia da artista: «Mon Cher — je t’aime, Monique».

Nick s’inginocchiò a raccogliere il contenuto sparso della cartella. Guardò a lungo il ritratto, il cuore in tumulto al ricordo della bellezza di lei, poi passò a riordinare le pagine dattiloscritte. Una recava in cima, tutto in maiuscolo: «MONIQUE», e immediatamente sotto «di Nicholas C. Williams». Cominciò a leggere.

«Il meraviglioso della vita sta nella sua imprevedibilità. La vita di ognuno di noi viene irrimediabilmente mutata da cose impossibili a prevedersi. Ogni mattina, usciamo di casa per andare al lavoro, a scuola o dal droghiere, e, novantanove volte su cento, torniamo senza che ci sia accaduto nulla d’interessante o che possiamo ricordare a un mese di distanza. In giorni simili, le nostre vite scorrono via nella banalità del vivere, alla cadenza fondamentalmente monotona dell’esistenza quotidiana. Ma quello per cui viviamo è un altro giorno: il giorno magico.

«Nel giorno magico, il nostro carattere si precisa, la nostra crescita accelera, e si compiono i nostri mutamenti emotivi. Talora, magari una sola volta nella vita, ci capita una serie di codesti giorni: giorni che arrivano uno dopo l’altro, e così pieni di vita, cambiamento e sfida, da trasformarci completamente e da soffonderci l’animo di gioia sconfinata. Accade così che, in periodi del genere, veniamo spesso sopraffatti dal semplice, incredibile miracolo del vivere in sé. Questa è la storia di uno di questi periodi magici.

«A Fort Lauderdale era l’inizio delle vacanze primaverili. La stagione di nuoto di Harvard si era appena conclusa, e mio zio mi offrì, come regalo per i miei ventun anni, l’uso del suo appartamento in Florida per un paio di settimane, così che potessi sfogarmi un po’ dopo i rigori dello studio e della pratica del nuoto…»

Eran quasi dieci anni che non guardava quelle pagine. Nel leggerne i primi paragrafi, ricordò vivamente l’estasi in cui erano state scritte. Due sere prima della festa… Lei, quella sera, aveva un impegno di società; sarebbe rientrata troppo tardi, e sarebbe venuta l’indomani mattina. Io non riuscii a dormire. Era la prima notte in una settimana che non stavo con lei. Si arrestò un istante: le antiche emozioni, turbinandogli dentro, gli davano un senso di vertigine e come di nausea. Rilesse il primo paragrafo. Ed è stato prima del dolore. Prima dell’incredibile, maledetto dolore.

La radio trasmetteva musica da quasi mezz’ora. Lui l’ascoltava, sapeva di ascoltarla, ma non avrebbe saputo dire di quali canzoni si trattasse. Musica di sottofondo, insomma. Ora, proprio nel momento in cui i ricordi di Monique si facevano più acuti, la «stazione di rock and roll classico WM1M, di Miami, 99,9 megacicli in FM» trasmise Time After Time, l’incantevole successo 1984 di Cyndi Lauper. La musica sembrò crescere d’ampiezza, e Nick dovette sedersi per riprendere respiro. Fino alla canzone, era riuscito a dominare i ricordi di Monique; ma ora, dinnanzi alla canzone, che era quella da lui suonata quasi ogni sera in macchina nel tragitto da Fort Lauderdale a Palm Beach per andare da lei, e che portava con sé tutto l’amore, la gioia, la paura e la rabbia giovanili che avevano contraddistinto l’intera storia, fu sopraffatto. E, mentre sedeva in ascolto sul divano, lacrime brucianti gli salirono agli occhi e rigarono silenziose le guance.

«… Sento dal letto il ticchettìo dell’orologio, e penso a te… La mente si perde in cerchi, la confusione non è nulla di nuovo… Flashback, notti calde, quasi lasciate alle spalle… Una valigia di ricordi… E torna, e torna sempre.»

2

«Tu dici, rallenta, io arretro… La seconda mano si dipana…» Brenda allungò la mano ad abbassare il volume del mangiacassette. «Sono io, signor Stubbs: Brenda Goldfine. Non mi riconosce?» gridò a un vecchio in divisa blu seduto su uno sgabello in una torretta circolare al centro della strada. «E quella dietro è Teresa Silver, che non si sente troppo bene. Su, alzi la barriera e ci lasci passare.»

La guardia scese dallo sgabello, uscì, e venne a passo lento verso la vecchia Pontiac di Nick. Preso nota della targa, si portò a lato del finestrino di Brenda. «Per stavolta, passi, Brenda, ma è contro il regolamento. Tutti i visitatori che si presentano a Windsor Cove dopo le dieci di sera devono avere il visto di sicurezza prima dell’arrivo.»

Finalmente, la guardia si decise ad alzare la barriera e Nick avviò la macchina. «Quello lì è proprio un rompiballe» gli disse Brenda, facendo schioccare la gomma nel parlare. «Cristo, si direbbe uno dei padroni del luogo!» Nick aveva sentito parlare di Windsor Cove, o, meglio, ne aveva letto. Una volta, in casa dello zio a Potomac, nel Maryland, aveva trovato una copia della rivista Town and Country sul tavolo e vi aveva letto della «vita elegante di Windsor Cove.» Ora, nel passare davanti alle proprietà del quartiere più prestigioso di Palm Beach, rimase colpito da tutta quell’esibizione di ricchezza privata.

«La casa di Teresa è quella laggiù» disse Brenda, indicando una casa in stile coloniale arretrata di un centinaio di metri dalla strada. Nick infilò il lungo viale d’accesso semicircolare e fermò in capo a un vialetto che conduceva all’ingresso della casa. Una costruzione imponente: un piano superiore, sei colonne bianche alte oltre sei metri, una sfarzosa porta culminante in un arco a vetri colorati, con la figura di un airone bianco in volo sullo sfondo di un cielo azzurro a pecorelle.

Brenda diede un’occhiata al sedile posteriore, dove l’amica giaceva svenuta. «Senti, sarà meglio che ci pensi io. Adesso vado a parlare alla signora Silver e a spiegarle quello che è successo. Altrimenti, con lei che a volte salta subito alle conclusioni, c’è caso che tu ti ritrovi nella merda fino al collo.»

Brenda non fece in tempo ad arrivarci, che la porta si apri e apparve una donna attraente in camicetta rossa di seta e pantaloni neri di taglio raffinato. Nick pensò che fosse stata avvertita dalla guardia, probabilmente. Che cosa si dicessero le due donne, non poteva saperlo, ma era evidente che la madre di Teresa stava facendo delle domande. Dopo un paio di minuti, Brenda tornò alla macchina con la donna. «Ma non mi avevi detto che era ancora svenuta» disse la donna con una voce sorprendentemente rauca, in cui si avvertiva un accento straniero — europeo, forse. «Senti, Brenda, questa è proprio l’ultima volta che la lascio venire con te. Perché non solo non sei capace di tenerla sotto controllo, ma dubito anche che ci provi.» Tono collerico, ma non stridulo…

Nick aprì la portiera e smontò. «Questo è il tale di cui le parlavo, signora Silver» disse Brenda. «Senza di lui, Teresa sarebbe forse ancora là sulla spiaggia.»