Schifato di sé, depresso oltre ogni dire, un’emicrania feroce provocata dai martini, non prese nemmeno il tempo di fare un bagno o di mangiare, ma preparò in fretta i bagagli. Poi caricò le due valigie in macchina e, lasciato alla direzione del complesso lo smoking preso a nolo, uscì dalla città in direzione dell’Interstatale 95. Circa tre chilometri prima di infilarla, accostò e si concesse un breve pianto. Fu tutto: e, da quel momento, nacque quella durezza esteriore che ne avrebbe caratterizzato i dieci anni di vita seguenti. Mai più, si giurò. Non permetterò mai più che una puttana si prenda gioco di me. No, caro mio, niente da fare.
Dieci anni più tardi, all’alba di un mattino di marzo nel suo appartamento di Key West, si sarebbe trovato a giocherellare con un oggetto di metallo dorato sul tavolino da caffè e avrebbe rivissuto il tremendo dolore della vista di Monique col marito a quel tal ricevimento. Tristemente, con un rimpianto da uomo maturo, avrebbe anche ricordato come, giunto alla I-95, avesse voltato a sinistra e a sud verso Miami e le Key, anziché a destra e a nord verso Boston. Allora, non avrebbe saputo spiegarne il perché. Forse, avrebbe detto che, dopo Monique, Harvard sembrava futile, o che, quello che meritava di venir studiato, era la vita, non i libri. Perché, allora, non aveva capito una cosa: che il suo bisogno di ricominciare da zero derivava dalla sua incapacità di guardare in faccia se stesso.
Erano cinque anni che non riviveva il ricordo di Monique dal principio alla fine. Quella mattina, per la prima volta, era riuscito a distanziarsi, pur se di poco, dalle emozioni rievocate, e a vedere l’intera storia con un minimo di prospettiva. Ora riconosceva così che, malgrado non riuscisse ancora a giudicare Monique del tutto priva di colpa, ciò che l’aveva portato a tutto quel dolore era stata la sua cieca passione giovanile. E, se non altro, il ricordo di quell’amore aveva perso il proprio potere di distruzione.
Prese il tridente e andò alla finestra. Forse i pezzi si stanno ricomponendo tutti, finalmente, pensò. Un nuovo tesoro, la muta definitiva dell’ultima angoscia adolescenziale… Pensò a Carol Dawson. Seccante, ma anche affascinante con quella sua veemenza. Da perenne sognatore, se la visualizzò fra le braccia, immaginando il calore e la dolcezza del suo bacio.
3
Carol osservò affascinata il polpo catturare la preda coi lunghi tentacoli. «Immagina cosa sarebbe avere otto braccia» disse Oscar Burcham. «Pensa solo a quale architettura deve avere il cervello per separare tutte le informazioni in arrivo, identificare ogni singolo stimolo e il rispettivo organo di provenienza, e coordinare tutti i tentacoli a fini di difesa o di acquisizione del cibo!»
Ridendo, Carol si volse al compagno. Erano di fronte a una grande finestra di vetro trasparente, all’interno di un edificio illuminato da una luce fioca. «Ah, Oscar, tu non cambi mai!» disse al vecchio dagli occhi vispi. «Soltanto tu puoi concepire tutte queste creature viventi sotto forma di sistemi biologici dotati di architetture. Ma non ti chiedi mai che cosa sentano, che cosa sognino mentre dormono, che cosa pensino della morte e come?»
«Ma sicuro» replicò Oscar con un brillìo ironico negli occhi. «Solo che, quando è già praticamente impossibile descrivere secondo verità i sentimenti degli esseri umani, coi quali pure esiste un linguaggio comune e una capacità di comunicazione evoluta, come vuoi che si faccia per conoscere, o anche solo per stimare, che so, il senso di solitudine dei delfini? Ecco allora che noi, da sentimentali, commettiamo la ridicolaggine di attribuir loro sentimenti umani.» Dopo una pausa di riflessione, continuò: «Sarà dunque più fruttuoso condurre la ricerca scientifica a livelli ai quali siamo in grado di capire le risposte. Alla lunga, secondo me, il conoscere come funzionano, in senso scientifico, queste creature ci offre una miglior probabilità di valutarne i quozienti emotivi; il che non accadrebbe con la conduzione di esperimenti scientifici dagli esiti ininterpretabili».
Carol si chinò a baciarlo con affetto. «Tu prendi sempre molto sul serio qualsiasi parola io dica, Oscar. Anche quando scherzo, badi sempre a ogni mio commento.» Poi, arrestandosi e guardando altrove: «E sei l’unico a farlo».
Oscar arretrò con gesto teatrale e posò ambo le mani sulla spalla di lei: «In qualche punto di questa spalla c’è il proverbiale truciolo del risentimento… Ne sono certo… C’è sempre… Ah, ecco: trovato!». E, guardandola con aria d’intesa: «Non sta mica bene, sai. Una giornalista di successo come te, e anche celebre, diciamolo, che continua a soffrire di ciò che può descriversi solo come insicurezza terminale! Be’, allora: di che si tratta? Di una bella litigata fra te e il tuo capo, stamane?».
«No» rispose Carol mentre attraversavano la sala verso un altro settore dell’acquario. «Cioè, una specie, direi. Sai lui com’è: accentra sempre tutto su di sé. Io sto lavorando a questo grosso servizio, giù a Key West. Dale viene a prendermi all’aeroporto, mi porta a colazione, e mi sciorina per filo e per segno quello che devo fare per una copertura che regga. Ora, non è che io non ne apprezzi i consigli, che sono quasi sempre validi, o l’aiuto nelle faccende tecniche: è il modo con cui mi parla che non mi va giù. Insomma, mi fa sentire come una stupida o press’a poco.»
Oscar la fissò con sguardo assorto. «Carol, mia cara, lui parla così a tutti, me compreso, ma senza il minimo intento offensivo. È semplicemente convinto della sua assoluta superiorità, anche perché nella sua vita non è mai accaduto nulla che potesse fargli cambiare idea. In fin dei conti è diventato milionario coi suoi brevetti prima ancora della laurea al MIT.»
«Ma tutto questo lo so, lo so Oscar» disse Carol, spazientita e delusa. «E tu continui a proteggerlo. Dale e io siamo amanti da quasi un anno. Be’, lui va dicendo a tutti che è tanto fiero di me, che è felice dello stimolo intellettuale che gli offro, e poi, quando siamo insieme, mi tratta da scema. Guarda stamattina, per esempio: ha trovato a ridire perfino su quello che avevo scelto per colazione! Cristo santo: sono candidata al premio Pulitzer, e il tizio che mi vuol sposare ritiene che non sìa capace di ordinarmi da me la colazione!»
Erano davanti a una grande vasca dall’acqua cristallina. In essa nuotava una mezza dozzina di piccole balene, che affioravano ogni tanto per rifornirsi d’aria. «Mia giovane amica,» disse piano Oscar «quando, all’inizio, sei venuta a chiedere il mio parere, io ti ho detto che, a mio avviso, avevate anime incompatibili. E tu, ricordi cosa m’hai risposto?»
«Sì» disse lei con un mezzo sorriso. «Che il primo scienziato dell’IOM, cosa poteva saperne, di anime? E mi rincresce oggi Oscar, come m’è rincresciuto allora. Ma ero così cocciuta… Dale sembrava grande sulla carta e volevo la tua approvazione…»
«Lascia perdere,» la interruppe lui «sai cosa provo per te. Ma non sottovalutare mai uno scienziato. Ce n’è» continuò astrusamente «che vogliono conoscere fatti e concetti per poter giungere alla comprensione della natura ultima e globale delle cose. Anima putativa inclusa…
«Ora, prendi queste balene» continuò, accelerando il ritmo e cambiando abilmente argomento. «Noi ne studiamo il cervello da quasi un decennio, ormai: abbiamo isolato i vari tipi di funzione individuandone le sedi specifiche, e tentato di correlare la struttura a quella del cervello umano — tutto ciò, con un certo successo. È stata separata la funzione del linguaggio, ossia quella che governa il loro verso, e identificata la sede dei comandi fisici per tutte le parti del corpo: di fatto, insomma, abbiamo trovato nel cervello della balena una zona con funzione equivalente a quella che, nel cervello umano, governa le attività principali. Ma resta un problema, o, se preferisci, un mistero.»