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— Ma io non ci credo per niente che sia diventata così grossa! In vent'anni? È impossibile.

Si udì nuovamente quel terrificante sinuoseggiar di scaglie, ed altri venti metri di Nasu fecero il loro ingresso nella sala buia. Quindi l'anaconda sostò, tornando a saggiar l'aria a colpi di lingua.

— E poi non si ricorderà, di me. Non è mica un animalino domestico, accidenti a lei! Anche allora dovevo trattarla coi guanti, e tanto qualche morso me lo buscavo lo stesso.

— Ma se ti ho detto e garantito che non ha fame. E anche se ce l'avesse, non perderebbe tempo con prede piccole come noi.

— Ma insomma, cosa vuoi che faccia?

— Solo che resti calma e parli con lei. Dille le cose che le dicevi vent'anni fa. Dalle modo di riabituarsi a te… E non tagliare la corda.

Robin obbedì. Si trovavano a tre o quattrocento metri dal serpente. Ogni tanto quel fluente ondeggiare si ripeteva, ed altri cinquanta metri emergevano dalla galleria.

A un certo punto la testa del serpente giunse ad appena un paio di metri. Robin sapeva cosa stava per accadere, e si fece forza.

La grande lingua guizzò fuori e si distese a sfiorarle le braccia, si trastullò brevemente con la stoffa dei suoi abiti, le saettò sopra i capelli.

E andò tutto bene.

La lingua era umida e fredda, ma non sgradevole. E mentre quel delicato palpeggiare la percorreva da capo a piedi, Robin ebbe l'assoluta certezza che il serpente si ricordava di lei. Fu come se il tocco di quella lingua avesse trasmesso da Nasu a Robin un qualche segno di riconoscimento. Io ti conosco.

Nasu fece un altro lieve movimento, la grande testa si alzò leggermente dal suolo, e Robin si ritrovò racchiusa in un semicerchio di candida sinuosità serpentina più alta di lei. Un terrificante occhio giallo la fissò con ofidica ponderazione, ma Robin non provò paura. Poi la testa s'inclinò un poco…

…E a Robin tornò d'un tratto in mente qualcosa ch'era piaciuto a Nasu. Le capitava, a volte, di darle con l'indice un grattatina in cima alla testa, al che lei si sollevava, le si attorcigliava intorno al braccio, e si metteva in posizione per farsi grattare ancora.

Allora Robin si alzò in punta di piedi, protese le braccia e, con entrambe le mani chiuse a pugno, strofinò la levigata pelle che ricopriva la testa di Nasu. Il serpente emise un suono sibilante relativamente sommesso — non più forte della sirena di un transatlantico che entra in porto — e si ritrasse. Nuovo titillar di lingua, poi Nasu scivolò a contornarla sul lato opposto, e reclinò il suo capoccione per farsi grattare anche da quest'altra parte.

Movendosi a lenti passi, Cirocco si avvicinò. Nasu la osservò placidamente.

— Ecco fatto — disse Robin con voce sommessa. — Le ho parlato. E adesso che si fa?

— Evidentemente, questo qui è un po' più di un anaconda — commentò Cirocco.

— Evidentemente.

— Ignoro cos'abbia potuto operare una simile trasformazione. La dieta? La bassa gravità? Qualcosa è stato, comunque. Si è adattata alla vita nel sottosuolo. M'era già capitato d'intopparla in due o tre occasioni, ogni volta più grande, ma aveva sempre fatto in modo di tenersi alla larga da me. Ho ragione di credere che sia divenuta assai più intelligente di quanto non fosse in origine.

— Perché?

— Me l'ha raccontato un uccellino di mia conoscenza… Dopo di che, all'incontro successivo, le ho detto di venirmi ad aspettare quaggiù, se voleva ritrovarsi con la sua vecchia amica. E infatti eccola qui.

Robin era impressionata, però incominciava anche a farsi sospettosa.

— D'accordo, ma veniamo al dunque.

Cirocco sospirò.

— M'hai chiesto cos'è il male. Ecco, forse ora l'abbiamo di fronte. E per quanto ci abbia riflettuto a lungo, temo di non saper definire con precisione che cosa possa sembrare malvagio a un serpente. Non credo che Na-su ami Gea. Tutto quel che posso fare, ad ogni modo, è avanzare un suggerimento. Il resto tocca a te, e a lei.

— Quale suggerimento?

— Che tu le chieda di seguirci in Iperione, per uccidere Gea.

VENTISETTE

Nova alzò lo sguardo verso Virginale cercando di nascondere la propria delusione.

— Sei stanca? È per questo?

— No — rispose Virginale. — È solo che… che oggi non mi va di correre.

— Non ti senti bene? — Nova non ricordava d'avere mai udito un titanide lamentarsi neanche di un mal di testa. Erano tutti disgustosamente sani, quelli là. Con l'esclusione di fratture ossee e gravi lesioni interne, non c'era molto che potesse mettere a cuccia un titanide.

Aveva tutto il diritto di rifiutare, naturalmente. Nova non s'illudeva affatto di possedere Virginale, e neppure di poter disporre in alcun modo del suo tempo. Però era una cosa cui s'erano dedicate regolarmente sin dal loro arrivo a Bellinzona.

Nova preparava e impacchettava una pantagruelica merenda, quindi se ne partivano tutt'e due al galoppo in direzione di qualche remoto, impervio luogo montagnoso, con la ragazza abbarbicata come un'edera in groppa alla titanide per non finire in fondo a qualche burrone, ma consapevole di correre d'altronde ben pochi rischi. Giunte sul posto mangiavano, discorrevano del più e del meno, poi Nova schiacciava un pisolino mentre Virginale s'immergeva nel temponirico.

All'inizio l'avevano fatto immancabilmente una volta all'ettoriv. Man mano però che le sue responsabilità aumentavano, a Nova era rimasto sempre meno tempo per quelle escursioni. Ma erano il suo unico divertimento, la sua sola fuga da un infinito deserto di aride cifre. Il calcio l'annoiava a morte, e bere non beveva.

— Va bene, allora diciamo domani, eh? — propose Nova, servendosi del termine comunemente usato a Bellinzona per significare "dopo il mio prossimo periodo di sonno".

Ma, con sua grande sorpresa, Virginale palesò un'evidente esitazione, e poi distolse lo sguardo.

— No, io non credo — replicò la titanide in tono riluttante.

Nova lasciò cadere il pesante bagaglio sulle assi di legno della strada, e si piantò le mani sui fianchi.

— Benissimo. È chiaro che ti frulla qualcosa in mente. E credo di avere il diritto di saperlo anch'io, no?

— Non ne sono sicura — rispose Virginale, con aria addolorata. — Ma forse a Tamburina piacerebbe, correre un po' in giro in tua compagnia. Se lo desideri, glielo posso domandare.

— Tamburina? E perché proprio lei? Perché ancora una bambina?

— Ti garantisco che anch'essa può portarti senza difficoltà alcuna.

— Non è questo il punto, Virginale! — Nova ricacciò in fondo l'émpito d'ira che minacciava di sommergerla, e fece un altro tentativo.

— Mi stai forse dicendo… che non vuoi correre insieme a me né oggi, né domani… né mai più?

— Sì — confermò Virginale, con gratitudine.

— Ma… perché?

— Non è questione di perché — rispose a disagio Virginale.

Nova si rigirò quella frase in mente cercando di darle un senso. Non era questione di perché… Ma c'è sempre un perché. I titanidi erano gente onesta, ma non sempre dicevano tutta la verità.

— Forse non mi vuoi più bene? — le domandò.

— Ti voglio ancora bene.

— Allora… anche se non puoi dirmi perché, magari però puoi dirmi cosa… cosa c'è di diverso, adesso. Sì, dimmi, cosa è cambiato?

Virginale, esitando, annuì.

— C'è una presenza — disse infine. — Un'entità estranea che va crescendo dentro la tua testa.

Nova, con gesto istintivo, si portò una mano alla fronte. Pensò immediatamente a Spione, e sentì gelide zampe di ragno brulicarle giù per la schiena. Ma non era quello, che Virginale aveva inteso.

— Confidavo che in breve tempo si sarebbe estinta — continuò la titanide. — Ma tu la stai nutrendo giorno dopo giorno, e ben presto sarà troppo grande perché la si possa sopprimere. E piango per te. E voglio dirti addio sin da ora, prima che quella cosa consumi la Nova che ho conosciuto e amato.