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Conal picchiò decisamente, virò, e lo stesso fece il Luftmörder. Udì provenire dalla creatura un suono lacerante, come un urlo di rabbia e d'agonia, alzò il capo, ed il suo sguardo si scontrò per un attimo con l'abominevole, crudele fissità di un occhio che lo guatava attraverso la protezione trasparente di uno schermo similplastica. L'occhio parve volerlo fulminare con una vampata di odio assoluto, poi il Luftmörder, le viscere in fiamme, sbandò impotente alla deriva.

Conal pensò alle bombe e ai missili e ai vapori di cherosene che dovevano saturare il leviatano morente, e impartì alla sua Libellula la virata più brusca cui ebbe fegato d'arrischiarsi.

Poi fu, per lui, come trovarsi coinvolto nei festeggiamenti del Capodanno cinese. Nugoli di frammenti incandescenti lo attorniarono disperdendosi in mille rivoli di fuoco. La Libellula venne squassata dal susseguirsi di molteplici onde d'urto, schiaffeggiata da sciami di schegge crepitanti, inghiottita per un attimo dall'abbacinante sudario di fiamme vomitato da una bomba scaraventata ad esploderle un po' troppo vicino…

Aere tranquillo e zeffiri sereni l'accolsero all'uscita dalla nube.

…Ma la Libellula era in frenetica trasformazione.

Si plasmava e riplasmava mutando geometrie una conformazione dopo l'altra, rallentando, dando inizio ad un lento, progressivo, inesorabile sbandamento a babordo. Da qualche parte, nell'ampia sua gamma di possibili strutture aerodinamiche, doveva pur esserci una configurazione atta a renderle il volo ancora possibile…

Ma non c'era.

Mi spiace, parve volesse dire al suo pilota l'intrepido aeroplanino, mentre capovolgendosi prendeva a precipitare come un sasso.

Conal si proiettò fuori senza esitazione, fece sbocciare il paracadute, vide il relitto in fiamme del Luftmörder fracassarsi al suolo mancando d'un centinaio di metri le propaggini dell'esercito.

E pensare che qualcuno aveva voluto convincerlo che nella vita vera le cose non vanno mai a finir bene come succede nei fumetti…

Poi guardò in su, ed ebbe modo di constatare che il suo fido paracadute sfoggiava senza pudore un bellissimo sbrano. Pimpante e gasato com'era, non se ne diede il minimissimo pensiero. Sopravviverò pure a questo, si disse, rivolgendo alla sorte un gran sorriso.

E sopravvisse.

Quando cercò di rimettersi in piedi, però, dovette cacciare un grand'urlo di dolore. Era riuscito a fratturarsi una caviglia.

— E chi mai ce l'ha avuto il tempo di far pratica co' 'st'aggeggi? — spiegò a quei bravi ragazzi della squadra di soccorso.

UNDICI

Avrebbe potuto essere andata diversamente.

Gea non disponeva di molti consiglieri militari, ma di qualcuno sì, e allorché giunsero i primi rapporti sulla sconfitta delle forze aeree di Crono e Meti, uno di costoro andò a cercarla e le riferì in merito. Le raccomandò, in tale circostanza, che venisse prontamente disposto il richiamo delle unità attualmente di stanza nelle zone più remote della Ruota, organizzandone altresì lo schieramento su posizioni più favorevoli allo scatenamento di un attacco in massa. Era unanimemente riconosciuto che si trattava del modo più efficace di affrontare i piccoli, infidi aerei di Bellinzona.

Gea stava assistendo alla proiezione di Guerra e Pace, nella versione integrale della Mosfilm. Convenne che si trattava probabilmente di una buona idea, e ordinò che la si relazionasse di nuovo al termine del film, quando avrebbe avuto agio di rifletterci un po'.

Ma all'uscir finalmente di sala, mentre ancora stordita ammiccava in piena luce, fu informata che tutte le sue basi aeree erano state distrutte, e che la sua Aviazione si trovava ormai ad un passo dal completo annientamento.

Tali cattive nuove suscitarono, sul suo faccione, uno stizzoso aggrottar di sopracciglia.

— Vedete un po' se vi riesce di scovare quella copia di Tattica e Strategia della Guerra Aerea — fu tutto quel che disse ai suoi consiglieri, e rientrò, senz'altro indugio, in sala proiezione.

DODICI

Si contarono i morti, i loro corpi martoriati furono pietosamente composti in attesa dell'ultimo atto. Poco più di seicento umani, ventidue titanidi. Le misere spoglie vennero quindi accatastate assieme a cumuli di legna da ardere, e infine si appiccò il fuoco, mentre tutte le Divisioni, sull'attenti, rendevano gli onori.

I feriti ricevettero ogni possibile cura. Millecinquecento umani e trentacinque titanidi, molti dei quali in condizioni preoccupanti. I meno gravi furono caricati su alcuni carri ed avviati, sotto scorta di tre Coorti, verso la città.

Un'intera Legione di morti e feriti, dunque, più un'altra mezza Legione che non avrebbe proseguito l'avanzata verso Iperione. Perdite analoghe avevano proporzionalmente interessato i titanidi. Si trattava insomma, a tutti gli effetti, di un'ulteriore decimazione.

Le cose sarebbero potute anche andare molto peggio. Tutti continuavano a ripeterselo. Ma nessuno si azzardò a dar voce a questo pensiero, intanto che il rogo funebre levava alte lingue di fiamma nella notte, o mentre uno sventurato campionario di superstiti accecati, ustionati, squartati, mutilati, veniva pian piano issato sui carri.

Con la spietata logica della guerra, Cirocco sapeva che non sarebbe potuta andar meglio neppure ad averne programmato ogni istante.

L'Aviazione aveva subito perdite molto più gravi dell'esercito, sia in uomini che in mezzi, ma, in compenso, le forze aeree geane non esistevano più. E i superstiti erano veri eroi. Il racconto delle loro strenue gesta si sarebbe perpetuato a lungo, nei bar di Bellinzona.

L'esercito era sì duramente provato, ma ora probabilmente più forte di quanto non fosse mai stato. Aveva orribilmente e definitivamente ricevuto, nel sangue, il suo battesimo del fuoco. I soldati avevano visto morire i loro compagni. Ne attribuivano la colpa a Gea, e la odiavano. Avevano assaggiato il gusto acre della paura. Ormai erano veterani.

I Generali capivano bene che era meglio non tirare in ballo simili argomenti, con Cirocco. Non avevano dimenticato la sorte toccata all'ex collega che aveva parlato di "perdite accettabili". Però sapevano tutti quanti che era la verità, e sapevano pure che Cirocco se ne rendeva perfettamente conto.

Difficilmente sarebbe potuta andar meglio di così.

Cirocco era talmente felice che aveva voglia di vomitare.

Il solo elemento in grado di renderle la situazione seppur lievemente tollerabile era il fatto che, sino allora, i suoi soldati avevano dovuto scontrarsi unicamente con dei mostri. Lei poteva quindi accettare, ed anche approvare, quell'odio, quel sanguinario spirito di vendetta, che tanto le sarebbero ripugnati se fossero stati rivolti verso un altro gruppo di umani. Fino a quel momento il suo esercito aveva, indiscutibilmente, combattuto il male.

Ma in Iperione, una volta giunti alle porte di Pandemonio, tutto poteva cambiare. Se i piani elaborati per affrontare Gea non avessero funzionato, quella gente si sarebbe trovata ben presto a dover volgere le armi contro altri esseri umani.

Una ristretta cerchia di costoro aveva scelto volontariamente di risiedere in quel luogo, ed era malvagia al pari di Gea. Ma gran parte degl'individui confinati entro Pandemonio erano stati scaraventati in quel malefico calderone non meno accidentalmente di quanto gli abitanti di Bellinzona fossero stati riversati in Dione. Con la stessa spietata imparzialità di un gioco d'azzardo. E Gea usava comunque un mazzo truccato.