Cirocco rabbrividì.
— Scusa. Credo d'avere usato una metafora piuttosto infelice. Ma ora basta, con le metafore. Ora andiamo ad affrontare la realtà.
Presero terra nei pressi del cavo centrale, proprio sul margine esterno della foresta di trèfoli, e proseguirono inoltrandovisi a piedi.
Man mano che si avvicinavano al centro, l'aria si andava facendo più calda. Né Conal né Cirocco avevano con sé una lampada, ma Gaby pareva disporre di una qualche sorgente di luce che le fluiva dinnanzi come una pioggia di dardeggianti raggidiluna, o come i riflessi generati dalle mille sfaccettature speculari di un lampadario da discoteca. Sufficiente per guardarsi attorno… anche se non c'era nulla da vedere. Cirocco aveva visitato la base di molti cavi, e si era sempre imbattuta, là sotto, nei relitti dei secoli. Scheletri di animali morti da lungo tempo, precipitate spoglie di nidi appartenuti a cieche creature volanti, raggrinziti rimasugli delle guaine che s'increspavano a desquamarsi dai trèfoli ciondolando giù per poche ore o interi millenni… persino vecchie scatole di cartone e involucri di plastica orfani dei loro tramezzini e lattine accartocciate risalenti ai giorni in cui Gea s'era trovata ad essere un'attrazione turistica, con torme d'umani che discendevano su zattere l'Ofione o s'accampavano nelle foreste di trèfoli. Foreste che ospitavano complesse ecologie notturne solitamente celate alla vista, ma della cui esistenza erano prova le deiezioni animali ed i frammenti vegetali caduti al suolo dall'alto d'invisibili interstizi.
Nulla di nulla, al contrario, in Oceano. Pareva che un'agguerrita squadra delle pulizie fosse passata solo poche ore prima a spazzare, spolverare, lucidare… Il terreno aveva la consistenza e l'aspetto del linoleum.
Ormai i timori di Cirocco erano solo un vago ricordo. E ripensandoci le sembrava persino assurdo, adesso, di avere avuto paura. Quelle sue fantastiche scorribande con Gaby le aveva sempre vissute in un piacevole statonirico di seminarcosi. Sapeva che in esse nulla di male poteva accaderle. Anche visti in retrospettiva, quei sogni non le trasmettevano la benché minima sollecitazione ansiosa. Procedeva ora dunque ricolma dell'ormai ben nota sensazione di tranquilla aspettativa. Le pareva, in un certo qual modo, d'esser come una bimba che cammini a fianco di sua madre lungo un viottolo sinuoso in mezzo al bosco. Esperienza interessante, sì, non tale tuttavia da suscitarle intense emozioni. Nuove cose l'avrebbero attesa dietro ogni svolta, mai niente però di pauroso. Il gusto dolce dell'attesa le blandiva il petto, e nessun pungolo importuno impelleva a sollecitarle il passo.
Condivideva anche, per tramiti e riflessi difficili a descrivere, un'eco delle emozioni che traversavano Conal. Neppure lui provava timore, ma solo una gran curiosità, tanto che Gaby si vedeva costretta a richiamarlo di continuo per evitare che si slanciasse innanzi a loro. Era, per completare la similitudine, come un ragazzo di città che il bosco non l'avesse mai veduto: ad ogni svolta del sentiero, per lui, una nuova meraviglia.
In un punto che Cirocco sapeva — senza poter dire di dove le venisse tale certezza — essere il centro esatto del cavo, scorsero una luce. Avvicinandosi, videro che accanto a quel chiarore sedeva un uomo. Gli giunsero a pochi passi, e si fermarono. L'uomo alzò il capo a guardarli.
Lo si sarebbe detto Robinson Crusoe, o Rip Van Winkle. Aveva capelli e barba lunghi e grigi. Mescolati a quell'arruffata profusione di peli s'intravvedevano oggetti estranei, come ramoscelli e frammenti simili a lische di pesce. Una lunga chiazza scura gli scendeva lungo la barba partendo dal mento. Era tutto incrostato di sudiciume. Portava ancora i medesimi indumenti che Cirocco ricordava di avergli veduto indosso, vent'anni prima, quel giorno che a Titantown, nella sala mescita della Gata Encantada, costui aveva strisciato piagnucolando sul pavimento in mezzo alla segatura e allo sterco titanide. Dire che i suoi vestiti erano cenci sbrindellati non rendeva loro piena giustizia: si trattava, in effetti, del più decrepito insieme di articoli d'abbigliamento che a Cirocco fosse mai capitato di vedere. Larghi squarci nel tessuto logoro mostravano generose porzioni di pelle, una pelle vizza, consunta, tesa allo spasimo sulle ossa, e ogni centimetro della quale recava cicatrici di tutte le dimensioni. Il suo viso era vecchio, ma non allo stesso modo del viso di Calvin. Avrebbe potuto essere la faccia d'un vagabondo barbone sessantenne. Una delle orbite oculari era vuota.
— Ciao, Gene — lo salutò Gaby in tono pacato.
— Come tu stai, Gaby? — domandò Gene, con voce sorprendentemente vigorosa.
— Io sto bene. — Si rivolse a Conal. — Conal, ti voglio presentare Eugene Springfield, già componente dell'equipaggio del vascello interplanetario Ringmaster. Gene, questo è Conal Ray, tuo pro-pronipote. Ha fatto un lungo viaggio, per poterti conoscere.
— Sedeteve quàe — li invitò Gene senza esitare. — Tanto 'n ho mica d'anda' da nessuna parte.
Si sedettero. Conal non staccava lo sguardo di dosso al vetusto congiunto, l'uomo che aveva creduto morto e per vendicare il quale era venuto su Gea.
La prima cosa che Cirocco notò dopo un'occhiata più attenta a Gene, fu un rigonfiamento che gli spiccava sulla fronte stempiata. La pelle, in quel punto, appariva intatta. Ma la sagoma cranica risultava deformata, come se dall'interno sporgesse un mezzo pompelmo.
L'ubicazione della protuberanza la diceva lunga. Cirocco stupì, al pensiero della pressione che quella cosa doveva esercitare sui lobi frontali di Gene.
Diede un'occhiata attorno. Non c'era molto, da vedere. Il fuoco scaturiva da una spaccatura nel terreno. Fermo e luminoso, nelle tenebre senza vento.
Da una parte un mucchio di paglia, probabilmente il giaciglio di Gene. Più in là, riflessi baluginavano da un immoto stagno largo una ventina di metri. Accanto a Gene un grande secchio zincato con dentro un po' d'acqua.
Ecco tutto. Si riconosceva, a breve distanza, l'ingresso alla scalinata che sprofondava a raggiungere la reggia di Oceano.
— Sei rimasto qui per tutto questo tempo, Gene? — gli chiese Cirocco.
— Eh, sì, mai mosso de quìe — confermò lui. — Fino da quella vorta là che Gaby me tagliò via le palle in Teti… — Diede una sbirciata a Gaby, uscendosene in una risatina stridula. No, pensò Cirocco, non era esatto definirla una risata. Non ne aveva la sostanza. Era semplicemente un suono uscito dalla gola di un vecchio. Lui continuò a gorgogliare così mentre occhieggiava Cirocco, poi Conal, infine di nuovo Gaby. — 'n é che sei venuta a domandamme scusa, vero no?
— No — rispose Gaby.
— Io però mica ce contavo, sai. E comunque 'n importa. Me so' ricresciute, ve', propio come la prima vorta che me l'hai tagliate… — Ed emise di nuovo quel suono chioccio che assomigliava a una risata.
— Ma qui cos'è che mangi? — gli chiese Conal.
Gene lo guatò con sospetto, quindi affondò dentro il secchio una manaccia nodosa, che subito ne riemerse stringendo un cieco animaletto grigio in preda a scomposti contorcimenti.
— Le cuoci su quel fuoco? — domandò a sua volta Gaby.
— Còcele? — trasecolò Gene. Scrutò la sgraziata bestiola che gli si sdivincolava fra le dita, poi guardò il fuoco, quindi tornò alla preda, mentre una sconvolgente congettura gl'impennava le irsute sopracciglia. Infine allargò la bocca in un gran sorriso, esibendo una terremotata chiostra di neri monconi. — Vacca, questa sì cch'è 'na pensata! Tanto so' ppoco toste… Da fatte casca' li denti, so'! L'acchiappo 'n quela pozza laggiù. Diavolacci sdrucchiolosi che 'n son altro! — Riponderò l'anguilla, aggrottò le sopracciglia dando l'impressione di non riuscire a capacitarsi di come avesse fatto ad arrivargli in mano, quindi la riscaraventò senza tanti complimenti dentro il secchio.