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Poiché tutti i profughi sbucavano nel medesimo posto, il Portale faceva da polo di attrazione per un'eterogenea gamma di predatori inclini a sfruttare la debolezza e l'ignoranza. Simili a mezzani di sentinella all'autostazione di una grande città, quegl'individui facevano la posta agl'immigranti in possesso di qualunque cosa palesasse un probabile valore commerciale. Talvolta si trattava dei loro miseri beni materiali. Altre volte i predatori non si accontentavano di così poco.

Era uno strano gioco, quello cui si dedicava Conal. L'aveva giocato molto spesso, sebbene Cirocco affermasse che era un pazzo a comportarsi così, e avrebbe continuato anche se si fosse accorto che lei diceva sul serio. Ma sapeva come stavano in realtà le cose, e Cornamusa gliel'aveva confermato.

— È una follia proficua — aveva dichiarato il titanide. — Assai vicina alla nostra visione delle cose. — Ai titanidi non importava d'impegnarsi in una causa persa, e non si preoccupavano di non poter schiacciare tutto il male del mondo. Se vedevano la possibilità di far del bene senza rimetterci la pelle, lo facevano, e Conal era proprio come loro.

Il che non vuol dire che affrontasse la cosa avventatamente. Alcuni dei fannulloni affezionati frequentatori del Portale circolavano in bande, e non vedevano affatto di buon occhio chi osava ficcare il naso nelle loro attività. Conal era quindi solito restarsene quieto in disparte, aspettando l'occasione di mettersi furtivamente alle calcagna del cacciatore allorché costui sgomberava per andare a rintanarsi con la sua preda in un luogo scuro e appartato. Quando l'occasione veniva, quando gli riusciva di pedinare uno sciacallo del Portale sino a coglierlo di sorpresa, Conal lo uccideva. Assassini, ladri, mercanti di schiavi o commercianti di bambini, per Conal non faceva differenza. Non c'erano prigioni a Bellinzona, non esisteva una condizione intermedia fra la vita e la morte.

Più spesso gli toccava stare a guardare mentre quegli schifosi picchiavano e derubavano la gente lasciandola a terra nuda e sanguinante. Poi raccattava la vittima, e la portava a uno di quegli inesperti ciarlatani che a Bellinzona fungevano da ospedali.

Quel giorno sembrava promettere bene. Dando un'occhiata in giro, individuò un gruppo di quattro Vigilanti che impugnavano randelli irti di chiodi arrugginiti. C'erano anche tre Libere Femmine armate di archi, ben piazzate in disparte su un rilievo del terreno. Molto probabilmente non avrebbe avuto bisogno d'intervenire. La sola presenza di quei difensori aveva tenuto lontani molti criminali.

I proventi dei furti, al Portale, erano in continua diminuzione. Sempre più gente arrivava senza nemmeno uno straccio indosso, un'espressione vacua dipinta sul volto: i cadaveri ambulanti del Cimitero Terra. Molti di loro s'erano trovati a un passo dalla morte, al momento del salvataggio, e su alcuni pesavano anni di orribili sofferenze. Gea curava i loro corpi, ma non poteva o non voleva far nulla per le loro menti.

Il gruppo odierno appariva diverso. Per una buona metà non solo erano vestiti, ma portavano zaini e valigie traboccanti di oggetti personali. Conal poté udire un mormorio levarsi dal mucchio degli sciacalli. L'arco di una Libera Femmina schioccò, e nella gola di un uomo apparve infissa l'asta di una freccia; a Bellinzona equivaleva a un garbato avvertimento. I Vigilanti si diedero a menar botte da orbi con le loro mazze, ma ben presto furono costretti sulla difensiva. Conal prese ad arretrare lentamente. Non aveva la minima intenzione di rischiare la pelle in un tumulto.

Proprio nel momento in cui si apprestava a ritirarsi, gli cadde l'occhio su una coppia particolarmente interessante. Una donna di bassa statura, sulla trentina, con in volto un qualche genere di decorazione e fra le braccia un fagottino, procedeva accanto a una stupenda ragazza certamente sul metro e ottanta. Entrambe indossavano lucide e imbottite tute di sinseta: indumenti spaziali. Quella alta portava la maggior parte del bagaglio, e quella bassa aveva sulle spalle un grande zaino di sinseta.

A Conal sfuggì un gemito. Era come vedere un galeone spagnolo carico di tesori approdare a un covo di pirati. Quelle non avevano idea di ciò che le attendeva.

Avvenne rapidamente. Una sagoma minuta saettò fuori dalla folla, mollò un pugno in pieno viso alla donna bassa e le strappò il fagotto. Conal si accorse che c'era dentro un bambino. La madre fece per inseguire l'uomo, ma venne repentinamente attorniata dal resto della banda, che si sarebbe incaricata di depredare le due donne mentre il primo aggressore fuggiva col bottino più importante.

Non poteva far nulla per aiutarle, assalite com'erano da almeno sei uomini, ma si sarebbe gettato in caccia di quello che aveva il bambino, perché di tutte le cose che potevano accadere su Gea egli pensava che la peggiore fosse venir venduti ai Fabbri Ferrai. Era già in corsa dietro il fuggiasco, quando udì levarsi le prime urla. Pur a malincuore, si volse a guardare.

Pareva la furia di un uragano. Le due donne avevano coltelli in entrambe le mani, e altri coltelli pronti a essere estratti dagli stivali, e roteavano all'impazzata urlando a pieni polmoni, trafiggendo e squarciando. Uno degli assalitori fu ferito sette volte, prima d'avere il tempo di accasciarsi e incominciare a morire. Un altro cercò di tamponarsi la gola mentre già una seconda lama gli frugava nei visceri. Ne giacquero a terra quattro, poi cinque, mentre altri avanzavano a pugnali sguainati.

In realtà le due donne non avevano scampo. Era la più straordinaria dimostrazione di assoluta, furibonda volontà di combattere cui egli avesse mai assistito, però non vedeva come da sole esse potessero far fronte a quell'orda sanguinaria. Avrebbero trascinato con sé all'inferno una bella guardia d'onore, ma comunque sarebbero morte. Il minimo che lui poteva fare era salvare il figlio del guerriero più anziano.

E scoprì d'essersi quasi soffermato troppo, ammaliato dal fascino torbido di quella carneficina. Il rapitore in fuga s'approssimava già al maggior ponte d'ingresso a Bellinzona, quand'egli riuscì infine a districarsi dalla calca giungendo in terreno aperto.

Alla fine del ponte aveva un centinaio di metri di svantaggio. Il fuggitivo era piccolo e veloce e sgusciava agilmente in mezzo alla folla, ma poi volle troppo giocare d'astuzia. Sapendo quanto dia nell'occhio un uomo in corsa, rallentò, guardandosi alle spalle per constatare se qualcuno l'inseguiva. Se avesse continuato a correre per un altro minuto, molto probabilmente Conal lo avrebbe perso, e, d'altra parte, se Conal avesse continuato a correre per un altro secondo si sarebbe fatto individuare. Ma quello era il gioco di Conal, e quando l'uomo si volse a guardare non vide traccia d'inseguitori.

Nemmeno la seconda volta che si guardò alle spalle notò nulla, e così pure la terza volta. Il suo quarto controllo diede il medesimo risultato, e per un'ottima ragione: Conal, stavolta, era davanti a lui.

Non ci voleva molto a capire dove si stesse dirigendo il rapitore: sapevano tutti dove aveva sede l'ufficio commerciale dei Fabbri Ferrai. Tenersi un neonato rapito più a lungo dello stretto necessario era insensato; la maggior parte degli umani non vedevano affatto di buon occhio il commercio di bambini. Quindi Conal si appostò s'una stretta banchina e rimase in attesa.

L'uomo comparve muovendosi in fretta, ancora attento a eventuali inseguitori. Conal immaginava che avesse udito le urla, e ne fosse rimasto turbato. Il rapitore agì come Conal si aspettava, tenne cioè sollevato il bimbo davanti a sé avventandosi su Conal con un coltello nella destra. Conal gli afferrò il polso e lo spezzò; l'uomo cacciò un urlo e il coltello gli cadde. Con l'altra mano Conal lo aggirò pugnalandolo alla schiena. Quello lasciò andare il bambino e Conal lo afferrò, poi estrasse l'arma e lasciò che l'avversario si accasciasse sul pontile di legno.