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Cirocco nutriva un atteggiamento di profonda ambivalenza, nei confronti dei Ferrai. Da un lato era praticamente impossibile amare creature che usavano mantenere in incubazione i loro nascituri nel corpo di bambini umani. D'altra parte, a differenza di moltissimi umani, lei non li odiava. Forse si poteva definirli "mostri", ma solo a patto di essere disposti a riconoscere che divorar braciole di vitelli e agnellini rendeva mostri gli umani a loro volta. E poi non costituivano affatto, per i cuccioli d'uomo, una minaccia pari a quella rappresentata invece dagli stessi genitori e dal prossimo in genere. Il furto di bambini era un'attività di minime proporzioni, a Bellinzona. I Fabbri Ferrai non rapivano mai nessuno; ciò che ottenevano lo pagavano subito e bene, e inoltre acquistavano in modeste quantità. Paragonati a qualsivoglia generale, da Cesare fino a quelli attualmente dediti a cambiare i connotati alla madre Terra, i Fabbri Ferrai erano dei santi.

Si trattava comunque di creature raccapriccianti, la più aliena fra le razze senzienti di Gea. Il loro maggior pregio consisteva in un'assoluta affidabilità.

— Per quale motivo dovrei avere diritto a una percentuale? — chiese Cirocco all'alto papavero.

— A Gea non si domanda mai perché.

— E invece dovreste provare, qualche volta. — Vana osservazione. Cirocco non sarebbe mai riuscita a suscitare in mezzo ai Ferrai un moto di rivolta. L'altro continuava a guardarla impassibile… ammesso che abbia senso parlare di vista in relazione a un essere sprovvisto d'un qualche riconoscibile apparato ottico. Quell'essere le ricordava un'illustrazione di un vecchio libro, qualcosa che riemergeva dalle ombre remote della sua infanzia. Il gufo di Winnie-the-Pooh. Era alto e cilindrico, con in cima piccole creste che avrebbero potuto essere orecchie. Vicino a terra il suo corpo di metallo si svasava in una specie di balza, dietro cui s'intravedevano strane appendici deambulatorie. La creatura disponeva di un'enorme quantità di braccia (Cirocco non era mai arrivata a sapere quante), corrispondenti ad altrettante nicchie cui si adattavano con la stessa infallibile precisione di una lama in un coltello a serramanico.

— Come percentuale, accetterò un passaggio per tornare a Ofione.

— Accordato. — L'essere si volse, e prese ad allontanarsi con l'andatura dondolante di un pinguino.

— Ma che ne farete di lui?

Il Fabbro Ferraio si fermò, rigirandosi a risponderle.

— Troveremo come utilizzarlo. — Il che era un modo come un altro per replicare "fatti i fatti tuoi", pensò Cirocco. In un secolo di rapporti con quel popolo d'ingegneri e commercianti, aveva appreso assai poco, su di loro. Non sapeva neppure se da qualche parte, dentro i loro corpi di metallo, esistesse davvero qualcosa di assimilabile alla materia vivente. Per un certo periodo aveva supposto che quelli che si vedevano in giro fossero tutti robot, e che i veri Ferrai non abbandonassero mai la loro munitissima isola al centro del Mare di Febe. Sapeva per certo che quando un Fabbro Ferraio perdeva un braccio, non se lo faceva ricrescere, ma ne costruiva un altro e lo montava al posto di quello precedente.

— Perché l'avete legato?

Pausa di silenzio. Il dirigente si girò pian piano a guardare Kong, poi riportò la sua attenzione su Cirocco. Era divertito? Chissà perché, lei avvertiva proprio quella sensazione.

— È ancora vivo.

Cirocco diede uno sguardo, e sentì che i capelli le si rizzavano sulla nuca. Gli occhi di Kong si erano aperti. La stava guardando, la grande fronte profondamente aggrottata. L'unico braccio che gli rimaneva, interrotto al gomito, si era sollevato, tendendo il viluppo di funi. Gli occhi rotearono nelle orbite, e parve ch'egli stesse cercando di girare la testa, ma era troppo debole. Tornò a guardarla fissamente, scordandosi il problema del braccio immobilizzato.

Curvò le labbra in un esitante sorriso da scimpanzé, che a lei parve quasi malinconico.

Più tardi, sedendo in fondo al treno e guardando rimpicciolire in lontananza la montagna di Kong, Cirocco non poté fare a meno di porsi delle domande.

Quando sarebbe morto? Li aveva veduti estrarre quello che doveva essere il suo cuore, e l'organo le era apparso totalmente immoto. Riflessi, allora? Come gli spasmi involontari che continuano a percorrere la zampa di una rana anche dopo che è stata recisa dal corpo? Ne dubitava. C'era stata consapevolezza, in quello sguardo.

Gea costruiva per la durata. Non aveva progettato Kong perché fosse destinato a invecchiare, riprodursi… o morire. E così, solo quando quei bravi ragazzi gli avessero finalmente fatto a pezzi il cervello egli avrebbe potuto forse riposare in pace.

O forse no.

Si accorse di essere davvero dispiaciuta per lui.

Cirocco giunse alla linea principale est-ovest nella zona in cui lambiva le coste settentrionali del Mare di Febe. Salì poi su un merci diretto a oriente, pensando che l'avrebbe portata fino al fiume Arge, ma scoprì che dal tempo della sua ultima visita, non più di sei chiloriv prima, i laboriosi Fabbri Ferrai avevano esteso la linea di altri cinquanta chilometri. Attualmente stavano lavorando alla stazione terminale. Senza dubbio avrebbero ben presto raggiunto Teti. C'era da chiedersi come se la sarebbero cavata con la sabbia.

Anche per Cirocco, ovviamente, la sabbia sarebbe stata un problema, ma lei sapeva già come affrontarlo.

Lasciandosi alle spalle i Ferrai e tutte le loro opere, partì di corsa in direzione dell'estremità nordorientale di Febe. Innanzi a sé, emergente in lontananza dalla curvatura di Gea, già vedeva delinearsi Teti, gialla, desolata e implacabile.

Non cessò un attimo di correre, tranne quando le capitava d'imbattersi in vegetali particolarmente gustosi. Cirocco conosceva su Gea diecimila piante commestibili, oltre un migliaio di animali, e persino alcuni luoghi dove lo stesso terreno poteva essere mangiato. Esisteva un egual numero di piante velenose, alcune delle quali assai simili alle varietà innocue.

Febe non era un territorio accogliente, ammesso che un luogo del genere esistesse ancora. Tuttavia, quando incominciò a sentire la stanchezza, Cirocco prese in considerazione l'opportunità di riposarsi prima d'intraprendere l'attraversamento di Teti.

Era sveglia da quasi novanta riv, e gran parte di quel periodo l'aveva passato correndo.

Scelse uno stagno profondo nella zona crepuscolare tra Febe e Teti. Si trattava d'un territorio montagnoso e roccioso, pieno di sorgenti e laghi azzurri dalle acque temperate. Guardandosi attorno individuò un giacimento di argilla turchina.

Sedette e si tolse gli stivali, poi la camicetta, che infilò in una delle calzature, e i pantaloni, che stipò nell'altra. Tirò fuori dallo zaino un sottile rotolo di corda, poi vi ripose gli stivali insieme a una decina di chili di sassi, e lo richiuse ermeticamente. S'inginocchiò sull'argilla e incominciò a spremere e strizzare certe grandi foglie. La linfa vischiosa che ne stillava la incorporò nell'argilla, che ben presto si fece malleabile. Allora ci si rotolò in mezzo, se la spalmò frizionando accuratamente su ogni centimetro del corpo e tra i capelli. Quando si rialzò, aveva l'aspetto di un demone azzurro con gli occhi bianchi. Lo strato di fango era spesso circa tre millimetri, e si adattava ai suoi movimenti senza fessurarsi né sfaldarsi.

Immerse la corda nello stagno, e quella incominciò a dilatarsi. Ne legò un'estremità a un cespuglio che cresceva sulla riva. Poi entrò nell'acqua e si lasciò affondare, svolgendosi dietro quella fune ch'era adesso divenuta un robusto condotto di respirazione.

A neanche quattro metri di profondità la fievole luce della zona crepuscolare era scomparsa. Cirocco si scavò a tentoni una nicchia nel fondo melmoso, sistemandovisi supina e piazzandosi sullo stomaco lo zaino zavorrato. S'infilò in bocca l'altro capo del tubo e rallentò il respiro.