Diverse volte cercò gentilmente di separarsene, ma lei non volle lasciarlo andare. Dopo un poco lui smise di provare, e incominciò a nutrire certe capricciose fantasie. Quelle si limitavano a girargli per la mente, ma il resto di lui era arrivato già molto più avanti, creandogli costernazione e imbarazzo.
Alla fine lei si asciugò le lacrime e si scansò un poco da lui, continuando a poggiargli lievemente le mani sui fianchi.
— Hmm… Robin, non so se lo sai che…
— Lo so — gli confermò, dando un'qcchiata giù fra loro due. — Non c'è bisogno che ti scusi per lui. Lo so che quel tuo amico là conduce una sua vita propria, e che basta un tocco a eccitarlo. E che è capace di reagire anche a dispetto di quelli che possono essere i tuoi sentimenti.
— Oh, be'… ti dirò, invece io e lui di solito ci si trova perfettamente d'accordo.
Lei rise, e lo riabbracciò, poi alzò la testa e lo guardò con espressione seria.
— Lo sai, vero, che non potrebbe funzionare.
— Già, lo so.
— Siamo troppo diversi. Io sono troppo vecchia.
— Non è vero che sei troppo vecchia.
— Dammi retta, è così. Forse non dovresti farmelo, quel massaggio alla schiena. Potrebb'essere troppo difficile, per te.
— Sì, forse non dovrei.
Gli rivolse uno sguardo malinconico, poi prese a salire le scale. Si bloccò, rimase un attimo assolutamente immobile, quindi tornò indietro fermandosi sul primo scalino. In quel modo erano alti uguali. Gli pose le mani sulle guance e lo baciò. La sua lingua guizzò dintorno a titillargli le labbra. Infine si ritrasse, e pian piano allontanò le mani dal suo volto.
— Starò nella mia stanza per circa un'ora — gli disse. — Se sei furbo, credo proprio che te ne rimarrai quaggiù. Si volse, e mentre si allontanava su per la scala Conal stette lì a guardare i serpenti giostrarle sulla schiena nuda sinché non la perse di vista. Poi si girò e sedette sui gradini.
Trascorse dieci esasperanti minuti senza far altro che alzarsi e risedersi in preda a un turbine d'indecisione. A prescindere da tutto, non poteva tornare a casa in quelle condizioni. Ragionamento, ecco quello che gli ci voleva.
Era una situazione che richiedeva di essere affrontata con molta calma. Robin aveva ragione in pieno. Non avrebbe mai potuto funzionare. E una volta sola sarebbe stato da sciocchi, l'aveva detto lei stessa. Una sola volta non le sarebbe bastata, ma era tutto quello che lui poteva darle. Nient'altro che un esperimento, e inesorabilmente destinato a finir male.
Guardò di nuovo su per la scala. Aveva ancora chiara in mente l'immagine di quel ben carrozzato didietro.
— Bah!… — sospirò — Ne è passato, di tempo, dall'ultima volta che qualcuno mi ha accusato di fare il furbo. — Poi chinò il capo ad osservarsi il basso ventre.
— Tu lo sapevi fin dall'inizio, eh?
TRE
Valiha sedeva sulla cima della collina sovrastante Tuxedo Junction, accanto alla grande zona bruciata che s'allargava sul terreno. Già la vegetazione rispuntava tra le ceneri, germogliando ad avvolgere il biancore delle ossa. Fra poco quel luogo sarebbe stato difficile da distinguere.
C'erano diversi teschi umani. Uno molto più piccolo degli altri.
Le mani di Valiha erano indaffarate. Aveva iniziato con una larga tavola di legno stagionato e un assortimento di attrezzi da intaglio. L'oggetto era quasi terminato, adesso, ma lei ne aveva coscienza solo marginalmente. Le sue mani lavoravano senza bisogno di essere guidate dalla volontà. La sua mente era lontana. I titanidi non dormivano mai, tranne che nella primissima infanzia, ma entravano in una condizione di ridotta consapevolezza per periodi di due o tre riv. Era il temponirico, un arco di tempo durante il quale la mente era capace di vagabondare in regioni ampie e remote, nel passato, e in luoghi nei quali non avrebbe veramente voluto andare.
Valiha rivisse il suo tempo con Chris. Percepì di nuovo la sua amarezza, l'aliena brama di possesso così profondamente radicata nel suo animo che avrebbe voluto negarle di condividere il suo corpo con gli altri ch'ella amava, e il terribile, interminabile tempo dell'addio, quando la sua meravigliosa pazzia s'era trasformata in una follia bacata, e infine la lenta, faticosa riacquisizione di un sentimento di fiducia non disgiunto dalla definitiva consapevolezza che, probabilmente, ciò che un giorno era stato non sarebbe tornato mai più. Ed una volta ancora saggiò il suo profondo amore per lui, immutato ed immutabile.
Pensò a Bellinzona. Gli umani erano impegnati a sterilizzare il loro pianeta d'origine. A tale scopo facevano uso di armi che andavano oltre la sua comprensione, armi che avrebbero potuto ridurre Iperione a una lastra di vetro scintillante. Valiha accarezzò un pensiero che in piena veglia non avrebbe mai concepito. Se avesse posseduto una di quelle armi, l'avrebbe usata per sterilizzare Bellinzona. Molte degne persone avrebbero perso la vita, e ciò sarebbe stato un fatto doloroso. Ma i benefici di siffatta impresa ne avrebbero senza dubbio soverchiato i lati negativi. La ruota era la sua casa. Quei visitatori erano un cancro che corrodeva il cuore della ruota. Esistevano, certo, umani vòlti al bene. Ma pareva che riunirne a sufficienza in un sol luogo significasse dar vita a un'entità malvagia.
Continuando su tale linea di pensiero, giunse alla conclusione che i popoli della Terra dovevano aver compiuto la medesima riflessione. "Non è una buona cosa, quella che sto compiendo, ma gli esiti positivi prevarranno sul male necessario a conseguirli. Certo, è un peccato che debbano in ciò perire anche degli innocenti…"
Valiha abbandonò a malincuore ogni idea di sterilizzare Bellinzona. Avrebbe dovuto proseguire lungo la via che lei e gli altri titanidi avevano imboccato ormai da molti chiloriv: combattere il cancro cellula dopo cellula.
Sull'onda di tale pensiero, Valiha passò dal temponirico al tempo reale, e constatò di aver portato a termine quanto progettato. Lo sollevò tenendolo in luce, e lo esaminò con cura.
Non era la prima volta che realizzava uno di quegli oggetti. Eppure non avrebbe saputo attribuirgli un nome. I titanidi non usavano dar sepoltura ai loro morti: si limitavano a gettarli nelle acque del fiume Ofione, e lasciavano che i flutti se li portassero via. Essi non innalzavano monumenti né ponevano lapidi.
I titanidi non avevano altro dio all'infuori di Gea. Non l'amavano, ma credere in lei non costituiva un articolo di fede. Gea era reale almeno quanto la sifilide.
I titanidi non credevano nell'aldilà. Gea aveva detto loro che una cosa del genere non esiste, ed essi non avevano motivo di dubitare delle sue parole. Di conseguenza, non erano stati neppure indotti a sviluppare alcun afferente cerimoniale.
Ma Valiha sapeva che per gli umani era diverso. A Bellinzona aveva assistito a riti di sepoltura. Nella concretezza che la permeava, non avrebbe mai osato affermare che quelle manifestazioni cultuali fossero affatto prive di utilità. E adesso aveva lì tredici corpi, tutti anonimi, e si trovava nell'assoluta impossibilità di congetturare a quale delle innumerevoli e contraddittorie religioni terrestri avesse potuto appartenere ciascuno di loro. Come si sarebbe regolato un animo coscienzioso?
La risposta di Valiha consisteva in quel lavoro d'intaglio. Esso conteneva tredici diversi elementi, una sorta di libera associazione scaturita dall'incompleta comprensione che lei aveva degli idoli umani. Ce n'era uno con una croce e una corona di spine. C'erano una falce e martello, una mezzaluna, una stella di David, un mandala. C'era anche un'immagine di Topolino, e poi uno schermo televisivo con l'occhio della CBS, una svastica, una mano umana, una piramide, una campana, e la parola SONY. Proprio su in cima si dispiegava il simbolo più mistico di tutti, quello che si trovava tracciato sul Ringmaster: lo stemma della NASA.