Quando poi questi diventarono pericolosi e le allucinazioni ampliate artificialmente sfociarono nel sangue e nella morte, Leoh si accorse di vincere con frequenza sempre maggiore. E, mentre una parte della sua mente analizzava le cause del successo, l’altra cominciava a gustare la vittoria.
Hector, invece, mostrava i segni della tensione. E, se lo sforzo fisico richiesto da quell’applicarsi senza interruzione era davvero considerevole, gli effetti psicologici causati dal restare continuamente ferito e ucciso erano infinitamente più gravi.
— Forse dovremmo smettere per un po’ — propose Leoh il quarto giorno.
— No, sto bene.
Il professore lo guardò. Hector aveva la faccia scavata e gli occhi cerchiati. — Ne avete abbastanza — disse pacatamente al giovane.
— Per favore, non interrompete — supplicò Hector. — Io non posso fermarmi, ora! Datemi la possibilità di fare meglio, vi prego. Sto migliorando. Vi ho tenuto testa a lungo due volte, nei duelli di oggi pomeriggio, e anche stamattina. Per favore, non smettete proprio adesso che sono battuto ignominiosamente.
— Volete continuare? — Il professore gli sgranò tanto d’occhi in faccia.
— Sissignore.
— E se dicessi di no?
Hector esitò. Leoh intuì che stava lottando contro se stesso. — Se diceste di no — rispose infine l’ufficiale con voce spenta — sarebbe no. Non me la sento più di discutere con voi.
Il vecchio rimase in silenzio per qualche secondo. Infine aprì un tiretto della scrivania e ne estrasse una boccetta. — Ecco, prendete una capsula di questo sonnifero. Quando vi sveglierete proveremo di nuovo.
Era l’alba, quando ricominciarono. Leoh entrò nella duellomacchina deciso a lasciar vincere Hector e gli riservò la scelta delle armi e dell’ambiente. Hector scelse un ricognitore monoposto per orbite planetarie. Le armi erano dei normali raggi laser.
Eppure, malgrado il suo desiderio cosciente, Leoh riprese a vincere. I veicoli dovevano girare a spirale intorno ad un pianeta senza nome, e le rotte si intersecavano almeno una volta in ciascuna orbita. Si trattava di valutare la posizione orbitale dell’avversano e di programmare il proprio ricognitore in modo da trovarsi dietro o di fianco all’altro duellante al momento dell’incontro. Solo così sarebbe stato possibile puntare le armi contro il nemico prima che lui si voltasse.
Non sarebbe dovuto essere troppo difficile per l’ufficiale, che aveva il bernoccolo del calcolo mentale intuitivo. Nonostante questo Leoh mandò a segno il primo colpo. Hector aveva pilotato il veicolo egregiamente portandolo in un’ottima posizione per sparare, ma li aveva mancato il bersaglio. Invece lo scienziato, che manovrava in modo goffo e inesperto, riuscì a colpire al fianco il ricognitore del sottotenente.
Nei tre percorsi seguenti il professore azzeccò altri due colpi. Il veicolo di Hector ormai era mal ridotto. Quando incrociarono nuovamente, Leoh precedette il suo giovane antagonista e lo prese di mira coi lancialaser. Poi esitò, la mano posata sul pulsante.
Non ucciderlo più disse a se stesso. La sua mente non potrebbe sopportare un’altra sconfitta.
Invece la sua mano, ribellandosi alla volontà, cominciò a premere il pulsante: ancora un po’ e le armi avrebbero sparato.
Ma in quell’attimo di esitazione l’ufficiale aveva fatto compiere una virata al suo veicolo malandato, prendendo a sua volta di mira Leoh. Una scarica bruciante fece tremare da cima a fondo lo scafo del professore. Leoh premette a fondo il pulsante, senza rendersi conto se l’avesse fatto volontariamente o no.
Una raffica investì il ricognitore del sottotenente, ma non lo fermò. I due veicoli puntavano diritti uno contro l’altro. Leoh cercò disperatamente di evitare la collisione, ma Hector non desistette, ripetendo esattamente tutte le manovre dell’avversario.
L’impatto fu inevitabile, e i due veicoli esplosero.
Leoh si ritrovò bruscamente nella stretta cabina della duellomacchina, freddo e bagnato di sudore: gli tremavano le mani.
Uscì dal cubicolo e respirò profondamente. Il sole caldo inondava il locale e le pareti bianche brillavano per il riverbero. Attraverso i finestroni Leoh poteva vedere gli alberi, gli studenti più mattinieri e le nuvole del cielo.
Hector gli si avvicinò. Per la prima volta, dopo tanti giorni, il giovane sorrideva. Non aveva proprio l’aria allegra, ma sorrideva.
— Be’, questa volta mi è andata bene — disse.
Leoh ricambiò il sorriso, un po’ scosso. — Sì. È stata un’esperienza notevole. Non ero mai morto, prima d’ora.
— Be’, non è poi così terribile. Però fa una certa impressione.
— Sì. Ora capisco.
— Proviamo un altro duello?
— No, adesso no. Andiamocene da qui per un po’. Avete fame?
— Da morire!
Combatterono parecchi altri duelli nella giornata e mezza che seguì. Hector ne vinse tre. Era tardo pomeriggio e Leoh decise di smettere.
— Potremmo farne ancora un paio — disse l’ufficiale.
— È inutile, ormai — replicò il professore. — Ho tutti i dati che mi servono. Domani Massan si batterà contro Odal, a meno che non riusciamo a fermarli. Abbiamo molto da fare, prima di domani mattina.
Hector si sprofondò nel divano. — Come volete. Nei sette giorni passati mi sembra di essere invecchiato di altrettanti anni!
— No, ragazzo mio — disse il professore gentilmente. — Non siete invecchiato. Siete maturato.
9
Era quasi notte, e l’auto si fermò sul suo cuscino di aria davanti all’ambasciata di Kerak.
— Sono tuttora convinto che sia un errore andare a ficcarsi là dentro — dichiarò Hector. — Non potevate chiamarlo alla tridimensionale?
Leoh scosse la testa. — Non offrite mai al rappresentante di un governo straniero la possibilità di dire restate un momento in linea. Nel frattempo quelli fanno capannello e decidono tutti insieme che cosa bisogna rispondervi. Novantanove volte su cento va a finire che vi passano a un altro dipartimento o vi collegano con un registratore acceso, che ripete sempre lo stesso messaggio. Spiacente…
— Però — disse Hector — è un po’ come metter piede in territorio nemico.
— Non oserebbero mai farci del male.
Il giovanotto non rispose, ma aveva l’aria poco convinta.
— Sentite un po’ — disse il professore — ci sono solo due persone al mondo in grado di far luce su questa faccenda: una è Dulaq, ma la sua mente rimarrà chiusa per chissà quanto tempo, e l’altra è Odal, che la sa lunga anche se finge il contrario.
Hector scosse la testa, scettico, ma Leoh strinse le spalle e aprì la portiera del veicolo. Il giovane non poté far altro che uscire anche lui, seguendolo lungo il vialetto che portava all’ingresso principale dell’ambasciata. L’edificio si alzava grigio e desolato nel crepuscolo, circondato da una siepe tagliata con cura. L’entrata era fiancheggiata da due alberi sempreverdi, dritti e austeri come sentinelle.
I due uomini furono ricevuti da un’impiegata che aveva un’aria sciatta, come se l’avessero spedita a quella scrivania all’ultimo momento e senza preavviso. Chiesero di Odal e furono introdotti in un salottino. Dopo qualche minuto, con grande sorpresa di Hector, la ragazza li informò che il maggiore h avrebbe subito raggiunti.
— Vedete — osservò Leoh sorridendo — quando si viene di persona non hanno il tempo di liberarsi di voi.
Hector lanciò un’occhiata tutt’attorno al locale privo di finestre e contemplò la porta massiccia, solidamente chiusa. — Dev’esserci un bell’andirivieni, là dietro — borbottò. — Forse stanno escogitando qualche sistema per liberarsi di noi in modo definitivo.