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Paul si svegliò a metà, avvolto dal tepore del letto, e pensò… e pensò. Tutto quel suo mondo di Castel Caladan, dove non c’erano giochi e compagni della sua età, forse non meritava la tristezza dell’addio. Il dottor Yueh, il suo insegnante, aveva lasciato cadere qualche parola occasionale sul fatto che la rigida distinzione tra le classi sociali, il faufreluches, non veniva molto rispettato su Arrakis. La gente, sul pianeta, viveva ai bordi del deserto senza un Caid o un Bashar che la comandasse: erano Fremen, e, elusivi come un turbine di sabbia, non venivano neppure censiti sui Registri Imperiali.

Arrakis… Dune… Il Pianeta del Deserto.

Avvertì una tensione interiore, e mise in pratica una delle lezioni psicofisiche che gli aveva insegnato la madre. Tre inspirazioni rapide fecero scattare il meccanismo: entrò nello stato di consapevolezza distaccata… focalizzare la coscienza… dilatare l’aorta… allontanare dalla mente ogni pensiero non focalizzato… essere cosciente per atto deliberato… sangue ben ossigenato che scorre velocemente alle zone sovraccariche… non si ottiene cibo-sicurezza-libertà solo con l’istinto… la coscienza animale non si estende al di là dell’attimo presente, né ad essa si affaccia l’idea che le sue vittime possono estinguersi… l’animale distrugge e non produce… il piacere dell’animale è strettamente limitato al livello della sensazione, senza giungere a quello percettivo… l’essere umano ha bisogno d’una scala graduata con cui misurare il suo universo… mettere a fuoco la propria coscienza con atto deliberato: così ci si crea la propria scala… l’integrità del corpo dipende dal flusso sanguigno e da quello nervoso, sensibili alle più minute necessità di ogni cellula… ogni cosa, cellula, essere non è permanente… lotta per la continuità del flusso interno…

La lezione passò e ripassò senza sosta nella consapevolezza distaccata di Paul.

Quando l’alba baciò di luce dorata il davanzale della finestra, Paul subito la percepì attraverso le palpebre chiuse; le aprì, e udì il frettoloso andirivieni del castello. Fissò le travi, il fin troppo familiare disegno sul soffitto della stanza.

La porta del corridoio si aprì e sua madre sporse la testa. I suoi capelli color del bronzo erano trattenuti, sotto la corona, da un nastro nero; i suoi occhi verdi lo fissarono solenni, senza emozione, dal volto ovale.

«Sei sveglio» disse. «Hai dormito bene?»

«Sì.»

Paul la osservò, studiando la sua figura alta e sottile, e avvertì una leggera tensione in lei quando si voltò a scegliere i vestiti nell’armadio. Un altro non se ne sarebbe accorto, ma lei gli aveva insegnato la Via Bene Gesserit: l’osservazione minuziosa dei particolari. La donna si voltò: aveva scelto per lui una giacca semiufficiale. Sul taschino era ricamato il falco rosso degli Atreides.

«Sbrigati a vestirti» gli disse. «La Reverenda Madre sta aspettando.»

«Ho sognato di lei, una volta» fece Paul. «Chi è?»

«Era la mia insegnante alla scuola Bene Gesserit. Oggi è la Veridica dell’Imperatore. E, Paul…» esitò «… devi parlarle dei tuoi sogni.»

«Certo. È per merito suo che ci è stato dato Arrakis?»

«Arrakis non ci è stato dato.» Jessica spolverò un paio di calzoni e li appese accanto alla giacca, vicino al letto. «Non devi far aspettare la Reverenda Madre.»

Paul si alzò, afferrandosi alle ginocchia. «Che cos’è un gom jabbar?»

Ancora una volta, l’addestramento che lei gli aveva impartito gli rivelò un’esitazione impercettibile, un moto nervoso involontario che Paul riconobbe: paura.

Jessica si avvicinò alla finestra, spalancò le tende e fissò i frutteti, oltre il fiume, verso il Monte Syubi. «Presto lo saprai…» gli rispose.

Avvertì la paura nella voce di lei, e si chiese a che cosa fosse dovuta.

Jessica continuò senza voltarsi: «La Reverenda Madre sta aspettando nel mio soggiorno. Per favore, fai presto».

La Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam sedeva su una poltrona damascata e guardava madre e figlio che si avvicinavano. Le finestre ai due lati si aprivano sull’ansa meridionale del fiume e sulle verdi proprietà degli Atreides, ma alla donna non interessava il panorama. Quella mattina, gli anni che le gravavano sulle spalle l’affliggevano più del solito. Ne attribuì la colpa al viaggio attraverso il cosmo, con quell’abominevole Gilda Spaziale e tutti i suoi segreti. Ma la missione richiedeva le personali attenzioni di una Veggente Bene Gesserit. Neppure la Veridica dell’Imperatore poteva declinare simili responsabilità, quando il dovere la chiamava.

Maledetta Jessica! esclamò dentro di sé la Reverenda Madre. Se solo avesse generato una figlia, come le era stato ordinato!

Jessica si fermò a tre passi dalla poltrona; fece una piccola riverenza e abbozzò un lieve movimento della sinistra, quasi una carezza alla gonna. Paul si piegò in un breve inchino come il suo maestro di danza gli aveva insegnato: quello per «quando si è in dubbio sull’effettivo rango sociale dell’interlocutore».

La sfumatura dell’inchino di Paul fu notata perfettamente dalla Reverenda Madre. «È un ragazzo prudente» disse.

La mano di Jessica strinse la spalla di Paul. Dalla pulsazione del palmo traspirò la paura del suo cuore. Ma riacquistò subito il controllo di sé. «Così gli è stato insegnato, Vostra Reverenza.»

Che cosa teme? si chiese Paul.

La vecchia studiò il ragazzo esaminando ogni particolare con una sola occhiata d’insieme. Il volto: ovale come quello di Jessica, ma zigomi forti… I capelli: quelli nerissimi del Duca… ma con l’attaccatura del nonno materno (colui che non può essere nominato) e pure il naso sottile e sdegnoso! La forma degli occhi verdi puntati su di lei: quella del vecchio Duca, il nonno paterno ora defunto.

Ecco, quello sì che era un uomo capace di apprezzare la vera spavalderia… perfino nella morte, pensò la Reverenda Madre.

«L’insegnamento è una cosa» dichiarò, «il materiale di partenza un’altra. Vedremo.» I suoi occhi fulminarono Jessica: «Esci e pratica la meditazione della calma. È un ordine».

Jessica tolse la mano dalla spalla di Pauclass="underline" «Vostra Reverenza, io…»

«Jessica, sai che occorre farlo.»

Paul alzò gli occhi sulla madre, perplesso. Jessica si raddrizzò. «Sì… naturalmente.»

Paul ritornò a guardare la Reverenda Madre. La cortesia, e il potere, fin troppo evidente, della vecchia su sua madre consigliavano la cautela. E tuttavia sentì crescere in sé una rabbiosa reazione alla paura che s’irradiava dalla donna.

«Paul…» Jessica respirò profondamente, «…questa prova alla quale stai per sottoporti… è importante per me.»

«Prova?» La guardò.

«Ricordati che sei figlio di un Duca» concluse Jessica. Si voltò e uscì a lunghi passi dalla stanza, con un irritato fruscio della gonna. La porta si chiuse alle sue spalle.

Paul squadrò la vecchia, dominando a stento la rabbia. «Si manda via così Lady Jessica, come se fosse una serva?»

Un sorriso si disegnò per un attimo sugli angoli di quella bocca rugosa. «Lady Jessica era davvero la mia serva, ragazzo. Lo è stata per quattordici anni, a scuola» assentì col capo. «Ed era anche bravissima. Ma adesso, vieni qui, tu

Il comando lo colpì come una sferzata. Paul si accorse di avere obbedito prima ancora di aver pensato. Ha usato la Voce su di me. Lei lo fermò con un gesto, accanto alle sue ginocchia.

«Lo vedi?» gli chiese. Dalle pieghe della veste aveva tirato fuori un cubo di metallo verde, di circa quindici centimetri. Lo girò, e Paul vide che mancava un lato… nero e spaventoso: nessuna luce penetrava in quell’oscurità.