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Se avesse guadagnato tempo sufficiente, avrebbe forse potuto ricorrere a qualche espediente contenuto nella gemma.

Di fretta e assorto nel groviglio dei suoi pensieri, Elminster si ritrovò sull’orlo di un precipizio, e poco ci mancò che non cadesse.

Lo strapiombo era infatti nascosto dai cespugli: il margine sgretolato di un’antica parete rocciosa digradava bruscamente a formare una gola ricoperta di alberi. Un minuscolo ruscello mormorava fra i massi sottostanti. El lo seguì con lo sguardo, dopodiché si girò verso l’ammazzamaghi che si stava avvicinando più rapidamente che mai, scivolando fra gli alberi e le radici contorte, con gli artigli instancabili che sferzavano l’aria.

Il giovane guardò lungo l’orlo del dirupo, e scelse un albero che sporgeva lievemente nel vuoto, ma sembrava grosso e solido. Corse verso di esso, una mano protesa per sondarne la robustezza, e solo il sibilo lo avvertì.

Sembrava che la creatura procedesse, quando lo desiderava., con velocità sorprendente. Elminster si voltò appena in tempo per vedere gli artigli anteriori raggiungere la sua testa. Si abbassò, scivolò sulle pietre instabili, e allungò disperatamente una mano per afferrare una radice oltre l’orlo del precipizio.

Tra il rumore assordante di pietre che franavano il principe di Athalantar oscillò verso la roccia, vi sbatté contro duramente, e afferrò la radice anche con l’altra mano, proprio mentre il lungo corpo serpentino lo superò precipitando nella gola sottostante.

Una decina di metri più in basso si trovava una pietra sporgente, e l’ammazzamaghi si contorse repentino per afferrarla. Gli artigli stridettero brevemente sul masso, creando scintille, poi la roccia si staccò dal suo ancoraggio antico e precipitò, trascinando con sé il suo passeggero riluttante.

Il masso e la creatura si schiantarono insieme sulle pietre sottostanti. Non rimbalzarono, né rotolarono, pur sollevando una nube di polvere. El osservò la scena con gli occhi lievemente serrati.

Quando la polvere si posò, il giovane vide ciò che si aspettava: pochi artigli che si agitavano attorno al sasso che aveva inchiodato l’ammazzamaghi.

La creatura era dunque abbastanza solida da poter colpire con gli artigli, da poter essere immobilizzata da una roccia, ma solo il metallo poteva arrecarle danno. O più probabilmente, il semplice ferro freddo.

Elminster guardò il pendio friabile sotto di lui, sospirò, e iniziò a trotterellare a valle, cercando una via per scendere. Non fece in tempo a percorrere venti passi che fu la via a trovare lui. Il terreno sotto i suoi stivali brontolò, come un uomo che parla nel sonno, e iniziò a franare lateralmente. El effettuò un inutile balzo indietro, e poi scivolò impotente lungo il pendio, trasportato da un fiume di terra e di rocce in movimento.

Prima di riacquistare vista e udito, tossì per un lasso di tempo che gli sembrò lungo ore, e quando si rialzò, era tutto dolorante.

Aveva assunto le sue vecchie sembianze. Aveva forse perduto la gemma?

Un rapido gesto bastò a rassicurarlo: la gemma era ancora sulla fronte, i suoi poteri in attesa di essere usati. Probabilmente aveva cambiato forma senza pensarci, per fare più presa e cercare di controllare la frana. Ma ora aveva poca importanza.

Elminster tentò un passo cauto, fece una smorfia di dolore quando appoggiò tutto il peso su un piede che sembrava essere stato colpito da centinaia di sassi durante il suo volo involontario, e si incamminò lentamente lungo il fondo roccioso della gola in cui era precipitato l’ammazzamaghi.

Probabilmente si era già liberato dal masso, pensò Elminster, e magari era in agguato tra le rocce. In tal caso non avrebbe fatto altro che usare quell’incantesimo, per poi ripercorrere la parte di foresta più pericolosa.

Poi lo vide: una selva di artigli spettrali si agitava goffamente tra le rocce attorno al sasso imponente. El aveva, non si sa come, ancora il pugnale fra le mani, e iniziò a colpire le zampe che spuntavano da sotto la roccia, guardandole svanire come fumo sotto la lama.

Quando tutte furono scomparse, il giovane si arrischiò a salire sopra il masso che inchiodava la creatura, e iniziò a pugnalarne il corpo impotente. La lama non incontrò alcuna resistenza, ma il mormorio frenetico divenne a poco a poco più flebile, fino a cessare completamente, dopodiché il masso si adagiò sulle rocce sottostanti con un forte rumore.

Elminster si drizzò lentamente, ammaccato ma soddisfatto, e sollevò lo sguardo verso il margine della gola.

Un uomo lo stava osservando dall’alto. Un uomo con una tunica, mai visto prima, ma che sembrava conoscerlo. Lo sconosciuto gli sorrise, poi alzò le mani e fece i primi cauti gesti di ciò che El riconobbe come il sortilegio dello sciame di meteore. Quel sorriso non era per nulla amichevole.

El sospirò, sollevò la mano per un saluto sardonico e con quel gesto sferrò il suo incantesimo.

Quando le quattro sfere di fuoco rabbioso raggiunsero il fondo della valle ed esplosero, l’ultimo principe di Athalantar era già scomparso.

Il mago che fino ad allora aveva seguito Elminster serrò i pugni mentre osservava il fuoco da lui evocato ruggire nella gola, e imprecò amaramente. Ora sarebbe stato costretto a trascorrere giorni e giorni sui libri, per imparare incantesimi che gli avrebbero consentito di localizzare quel giovane sciocco. Sembrava quasi protetto dagli dei per il modo in cui la fortuna pareva assisterlo. Era sfuggito all’incantesimo assassino alla locanda, il vecchio Surgath Ilder era stato una magra alternativa. Poi aveva in qualche modo intrappolato l’ammazzamaghi, e quell’ultimo incantesimo gli era costato giornate di lavoro.

«Oh dei, guardate giù e maleditelo insieme a me», mormorò, gli occhi colmi di vendetta mentre distoglieva lo sguardo dalla gola rocciosa.

Dietro di lui sagome pallide e invisibili, si sollevarono da una decina di cumuli di pietra che il fuoco aveva bruciacchiato al suo passaggio.

Si mossero in un silenzio lugubre verso un masso tra le pietre, e agitarono le mani per compiere un incantesimo, senza però pronunciare una sola parola. Il masso si sollevò con movimenti irregolari, al che le forme spettrali si allungarono incredibilmente fin sotto la pietra, e ne estrassero una creatura dai numerosi occhi, che ancora sferzava l’aria con artigli ormai stanchi.

Il mago udì il tonfo del masso, e sollevò un sopracciglio. Il giovane aveva fallito nel suo incantesimo e si apprestava a combinare qualcosa nelle vicinanze della gola? Oppure l’ammazzamaghi si era finalmente liberato?

Si voltò, sollevandosi le maniche. Aveva ancora un incantesimo utile, se fosse stato necessario.

Qualcosa stava risalendo la gola, o meglio più di qualcosa. Spettri, resti evanescenti di uomini, le gambe avvolte da una nebbiolina bianca, i corpi, ombre bianche nella semioscurità.

Erano in grado di uccidere, sì, ma egli aveva l’incantesimo giusto per… li guardò meglio. Elfi? Erano fantasmi di elfi? E tra loro, ancora vivo, il suo ammazzamaghi!

Fu in quel momento che Heldebran, l’ultimo apprendista sopravvissuto dei signori maghi di Athalantar, sentì in bocca il sapore metallico della paura.

«E voi siete?», domandò uno degli elfi spettrali, senza fermarsi.

«Non avvicinatevi!», gridò il mago Heldebran, sollevando le mani. Gli elfi non accennarono a rallentare, perciò l’apprendista sferrò l’incantesimo che avrebbe ridotto tutti i non-morti in polvere innocua, per sempre. Lo guardò avvolgerli come una rete.

E svanire, senza arrecare loro alcun danno.

«Notevole», commentò un altro spettro, mentre insieme atterravano in cerchio intorno a lui. I loro piedi erano evanescenti, e i corpi sembravano pulsare, mutando continuamente di luminosità.