Di sotto qualcuno gridò. El frugò impazientemente fra le magie che la gemma gli stava presentando, scartò le immagini di abili incantesimi di elfi dal sorriso sprezzante, e trovò ciò che cercava.
Un incantesimo di fuoco, per ridurre in cenere un robusto piantagrane. Al piano di sotto tre colpi di gong avevano già dato l’allarme.
Un breve chiarore gli indicò che i resti di Riluaneth avevano preso fuoco. El guardò il tavolo da gioco: scomparso, con la serva, i pezzi, e tutto il resto. Non era l’unico nella casa che sapeva muoversi rapidamente.
Ma probabilmente era l’unico uomo ad aver ucciso un elfo in quel luogo. Che gli dei maledicano gli individui arroganti e crudeli. Perché non aveva incontrato Ornthalas in quel corridoio, invece dei soliti guai?
Al piano sottostante il fuoco si spense e la spada cadde sul pavimento con gran fragore. Di Riluaneth non doveva esser rimasto più nulla, eccetto le ceneri fumanti.
Era tempo di cambiare aria poiché, molto presto, tutti avrebbero saputo del suo coinvolgimento nella morte di Ril. Se fosse in qualche modo riuscito a raggiungere subito l’erede, a consegnargli la gemma…
Il giovane principe balzò attraverso la volta, e si mise a correre lungo il passaggio antistante con una tale mancanza di grazia che avrebbe suscitato lo sdegno in qualsiasi elfo ma che, certamente, gli permise di allontanarsi molto più rapidamente. Aprì una porta e si introdusse in una stanza altissima, nella quale vi erano divisori filigranati che raggiungevano il soffitto e leggii con mani animate che spuntavano dalla sommità: mani che, mentre attraversava la stanza, gli porsero libri aperti.
La biblioteca alastrarrana? O una stanza di lettura? Avrebbe trascorso volentieri più di un inverno in quel luogo, invece di fuggire senza nemmeno dare uno sguardo a…
Ma ecco un’altra porta. El aggirò una sedia reclinabile fluttuante, che aveva l’aria di essere il massimo della comodità, e si buttò sulla maniglia.
Si trovava ancora a due passi di distanza quando la porta si spalancò improvvisamente, rivelando il volto di un elfo. El non riuscì a fermarsi e nemmeno a scansarsi in tempo.
«È caduto proprio qui, Onorata Signora!», ansimò il danzatore, indicando la fine delle scale. Il suo corpo unto d’olio luccicava nella luce tremolante di due bracieri fluttuanti, entrambi obbedienti alla volontà della matriarca della Casata degli Alastrarra.
La tunica color prugna che indossava mostrava di tanto in tanto il corpo formoso, e nel contempo slanciato, di Namyriitha Alastrarra. Un occhio esperto avrebbe notato che non era più tanto giovane, ma pochi si preoccupavano di notare tali piccolezze quando si trovavano di fronte a una simile bellezza.
E solo alcuni osavano incrociare il suo sguardo quando la rabbia le oscurava il viso, come in quel momento. «Stai indietro!», ringhiò, stendendo un braccio per conferire vigore al suo ordine. La sua tunica si sollevò e i capelli presero a vorticare, due chiari segni della sua rabbia scatenata. Un servo piagnucolò sotto voce, da qualche parte lì accanto. Fino ad allora l’avevano vista in quello stato solo tre volte, ma in tutte e tre quelle occasioni più d’uno l’aveva pagata cara per placarla.
La matriarca usò la magia, seppur con poche brusche parole. La spada si sollevò obbediente, tremò per il potere che la percorse, e partì su per le scale. L’incantesimo l’avrebbe condotta, come una freccia al bersaglio, all’uccisore di Riluaneth. Senza dubbio, data la sua passione per il gioco d’azzardo e le macchinazioni oscure, e il suo comportamento da donnaiolo, si meritava quella fine, ma nessuno poteva entrare in Casa Alastrarra e ucciderne un membro senza pagarne il prezzo.
Lady Namyriitha slegò qualcosa mentre si dirigeva rapida verso le scale, e la metà inferiore della sua tunica cadde a terra; la gettò da parte con un calcio e iniziò a salire i gradini, mostrando di tanto in tanto le gambe nude tra i pizzi. A metà scala le sue dita lungo la ringhiera scivolarono su qualcosa di scuro e appiccicoso.
La matriarca guardò il sangue sul corrimano senza rallentare, poi sollevò le dita gocciolanti e le osservò inespressivamente. Non fece nulla per pulirsele, né per rallentare l’inseguimento della spada che fendeva l’aria davanti a lei.
In fondo alle scale il danzatore raccolse la gonna abbandonata con fare incerto, poi la consegnò a un servo e si voltò verso le scale per raggiungere la matriarca. Esitanti, numerosi servi seguirono il suo esempio.
Quand’ebbero raggiunto il pianerottolo in cima alle scale, di Namyriitha e della spada non vi era più alcuna traccia. Il ballerino allora aumentò l’andatura.
El abbassò un braccio fino a toccare il ginocchio proprio all’ultimo istante, così che fu la sua spalla a scontrarsi con il servitore e con la porta. Entrambi si schiantarono con un gran tonfo contro la parete del corridoio e rimbalzarono in avanti. L’elfo ricadde scomposto sul tappeto e non si mosse più.
Ansimando, El riacquistò l’equilibrio e continuò a correre. Da qualche parte sotto di lui udì il gong suonare di nuovo. Giunse a un bivio – quella casa era davvero enorme - e, questa volta, girò a sinistra. Forse poteva tornare sui propri passi.
La scelta, a quanto pareva, non fu delle migliori. Due elfi in armatura scintillante color acqua marina gli stavano venendo rapidamente incontro, e appena lo videro sguainarono la spada. «Intrusi!», gridò El, sperando che la sua voce assomigliasse un po’ a quella di Iymbryl. Poi indicò la direzione dalla quale erano giunte le guardie. «Ladri! Sono andati di là».
Le guardie fecero dietro front, ma una di esse non gli risparmiò un’occhiata interrogativa. «Perlomeno la Signora non è venuta per assicurarsi che fossimo svegli», El sentì borbottare una delle guardie, mentre si affrettava lungo il corridoio. Più avanti vi era una stanza dominata da una statua a grandezza naturale di una signora elfa vestita con una tunica, le braccia sollevate in segno di esultanza. All’estremità più lontana vi era una scala discendente. Da essa partiva un corridoio a croce, fiancheggiato da divani sui quali le guardie si erano ovviamente appisolate. Lungo il corridoio vi erano doppie porte decorate; Elminster scelse quella che più gli piaceva e si diresse verso di essa. Era nel corridoio a pochi passi di distanza quando alcune grida provenienti dalla scala lo informarono che le guardie si erano accorte della sua assenza.
Allora afferrò la maniglia ad anello, e la girò. Le porte si aprirono ed egli si gettò nella stanza, richiudendole il più rapidamente e silenziosamente possibile.
Quando si voltò per vedere in quali nuovi guai si era cacciato, si ritrovò a fissare un letto ovale fluttuante a mezz’aria al centro di una camera in penombra. Era sovrastato da un baldacchino di foglie emananti un tenue bagliore color smeraldo, ed attorniato da numerosi vassoi su cui poggiava una schiera di bottiglie e bicchieri; gli occupanti del letto si misero a sedere di scatto e fissarono sorpresi l’intruso.
La donna era esile e di squisita bellezza, il volto e le spalle incorniciati da una chioma color blu-nero. Indossava una camicia da notte composta da un colletto e una sottile striscia di seta, impalpabile e diafana, di colore blu-verde, che le cadeva sul davanti e, presumibilmente, anche sulla schiena. I fianchi e le spalle nude luccicarono nella luce crescente mentre gli occhi enormi della fanciulla mutarono espressione, da allarmati a lieti. Dopodiché questa scese dal letto con una capriola aggraziata e gettò le braccia nude al collo di El.
«Oh, mio carissimo fratello!», mormorò, fissandolo negli occhi. «Sei tornato, sano e salvo! Ho fatto dei sogni terribili sulla tua morte!» La ragazza si morse le labbra, e si avvinghiò forte a lui, come se non volesse più lasciarlo. Oh, Mystra.
«A dire il vero», cominciò El goffamente, «c’è una cosa che devo dirti».