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Una porta si aprì rumorosamente sulla parete più lontana della stanza, e una ragazza elfa, alta, dallo sguardo furibondo, con indosso una camicia da notte simile, si parò sulla soglia, con anelli di fuoco intorno ai polsi. Dietro di lei si ammassarono le guardie in armatura luminosa, il sigillo del falcone stampato sul petto, le luci ammiccanti di magia pronta all’uso danzanti lungo le spade affilate che tenevano in pugno.

«Filaurel!», gridò la donna. «Allontanati da quell’impostore! Di nostro fratello ha solo la forma!»

La ragazza si irrigidì fra le braccia di El, e cercò di indietreggiare. El la tenne stretta come aveva fatto in precedenza la fanciulla, imbarazzato, consapevole della morbidezza del corpo liscio pressato contro il suo, e mormorò: «Aspetta, per favore!» Con una sorella premuta contro di lui, l’altra avrebbe certamente esitato a colpirlo con incantesimi.

Le braccia della ragazza tremarono di rabbia mentre si sollevavano proprio a quello scopo, ma si fermarono perché in tal modo avrebbero messo in pericolo Filaurel. Per il momento la giovane mise da parte gli incantesimi, ma non frenò la lingua. «Assassino!»

«Melarue», esclamò Filaurel con voce sottile, il corpo tremante contro il petto di Elminster, «che cosa devo fare?»

«Mordilo! Scalcia! Non dargli tempo di fare incantesimi mentre lo catturiamo!», ringhiò la sorella, avanzando.

Un’altra porta si aprì violentemente, e il fragore venne sovrastato da una voce magicamente accresciuta che pronunciò un comando secco e chiaro. «Fermi, tutti!»

La stanza piombò nel silenzio e nell’immobilità più totale, eccetto per il petto ansimante di Filaurel, pressato contro l’individuo che l’aveva in ostaggio.

E per la spada, che si avvicinava imperterrita a Elminster. Essa si sollevò, sopra la testa della giovane elfa, finché tutto ciò che poteva mettere a repentaglio fu solo il volto teso del falso Iymbryl, che la guardò scivolare diritta verso la sua bocca, sempre più vicino.

Dietro la spada si ergeva imponente una matriarca elfa, con addosso unicamente la parte superiore di una tunica, il volto calmo. Solo gli occhi feroci denotavano il suo risentimento, mentre se ne stava in piedi con le mani alzate nel gesto che aveva accompagnato il suo ordine. Una donna abituata a essere obbedita senza indugi all’interno della casa. Quella doveva essere Lady Namyriitha, la madre di Iymbryl.

El non aveva scelta: invocare la gemma, o morire. Con un sospiro risvegliò il potere che avrebbe ridotto la spada in fiocchi di ruggine, e poi in polvere prima ancora che toccasse terra.

«Tu non sei mio figlio», esclamò freddamente la matriarca, i suoi occhi due punte di pugnale conficcate in quelli di Elminster.

«Ma porta la kiira», rispose Filaurel, quasi supplicante, alzando lo sguardo sulla fronte illuminata dello sconosciuto: di colui che era uguale a suo fratello.

Namyriitha ignorò la figlia più giovane. «Chi sei?», domandò, avanzando.

«Ornthalas», esclamò Elminster stancamente. «Portatemi Ornthalas, e avrete la risposta che cercate».

La donna lo fissò, gli occhi socchiusi, per un lungo e silenzioso momento. Poi si voltò in un turbinio di merletti, e mormorò degli ordini. Due delle guardie chinarono il capo e si voltarono, tenendo sollevate le spade affinché nessuno si facesse male, e uscirono dalla porta. Malgrado potesse vedere ben poco, El suppose avessero ognuna una destinazione diversa.

Il silenzio teso che seguì non durò a lungo. Quando le guardie dietro Lady Namyriitha si disposero ad arco, rinfoderarono le spade ed estrassero frecce al loro posto, Melarue ordinò alle sue di accerchiare Elminster.

«Onorata madre», esclamò, le fiamme incantate che si rincorrevano ancora intorno ai suoi polsi, «quali pericoli ci attendono? Quest’impostore potrebbe avere l’ordine di uccidere a qualsiasi costo: una vittima predestinata il cui corpo contiene magie sufficientemente potenti da distruggere tutti, e questa casa con noi! Sarà prudente portare qui l’erede degli Alastrarra, alla presenza di questo… di questo mutaforma?»

«Io sono sempre consapevole dei pericoli che ci aspettano, Melarue», ribatté fredda la madre, senza voltare il capo per non perdere di vista Elminster, neppure per un attimo, «e ho trascorso secoli ad affinare il mio giudizio. Non dimenticare che sono il capo di questa casa».

«Sì, madre», rispose Melarue rispettosamente, con una nota di esasperazione che fece quasi sorridere El. A quanto pareva, uomini ed elfi non erano poi tanto diversi nel cuore.

«Per favore credimi», esclamò El rivolto alla ragazza fra le sue braccia, «non intendo fare del male a te, o alla tua casata. Sono qui per onorare una promessa importante».

«Quale promessa?», domandò bruscamente Lady Namyriitha.

«Onorata Signora», rispose El, voltando il capo verso la donna, «vi svelerò tutto quando avrò fatto ciò che devo: è una questione troppo importante per esser messa a repentaglio da una disputa. Vi assicuro che non ho intenzioni malvagie».

«Dimmi il tuo nome!», urlò la matriarca, usando la magia sull’ultima parola per costringerlo a parlare. Il principe tremò come una foglia nella schiavitù del suo potere, ma la gemma gli permise di ritrovare il controllo, e la grazia di Mystra lo mantenne in piedi. El guardò la donna e scosse il capo. Si udì un mormorio di rispetto tra i guerrieri e, all’udirlo, il volto di Namyriitha si tese in un nuovo impeto di rabbia.

«Eccomi», esclamò una voce profonda e, tuttavia, musicale. In quell’istante apparve un elfo con la cappa e la tunica, solitamente indossate dagli arcimaghi umani. Il motivo del falcone era ricamato sulla fascia centrale, ripetuto più volte, ciononostante El capì subito che non era un servitore. Tra le mani aveva uno scettro corto, di legno, con scanalature a spirale sui lati, e alcuni anelli luccicavano sulle sue dita antiche e nodose.

«Naeryndam», esclamò bruscamente la matriarca, inclinando il capo in direzione di Elminster, «risolvi la questione».

Il vecchio elfo scrutò El, con occhi attenti e indagatori. «Sconosciuto», cominciò lentamente il mago elfo, «posso affermare che non sei l’Iymbryl di questa casata. Tuttavia porti la sua gemma. Pensi che ciò ti conferisca il diritto di comandare gli Alastrarra?»

«Onorato saggio», rispose El, piegando il capo, «non ho desiderio di comandare nessuno in questa città meravigliosa, né di fare alcun male a te o ai tuoi familiari. Sono qui per una promessa fatta a un moribondo».

Tra le sue braccia, Filaurel iniziò a tremare. El seppe che stava piangendo in silenzio, e automaticamente le carezzò i capelli e le spalle nell’inutile tentativo di consolarla. Lady Namyriitha serrò le labbra, ma Melarue e alcuni dei guerrieri guardarono l’intruso con occhi più benevoli.

L’anziano elfo annuì. «Le tue parole suonano vere. Sappi allora che sto per fare un incantesimo che non intende nuocerti, comportati di conseguenza».

Il vecchio sollevò la mano, effettuò con essa un movimento circolare, distese e ripiegò due dita, e si soffiò qualche granello di polvere sul polso. Nell’aria si udì un canto, e le guardie attorno al falso Iymbryl indietreggiarono frettolosamente. L’aria sibilante – una sorta di barriera magica, pensò El – lo accerchiò strettamente.

Il giovane si limitò ad annuire al vecchio mago, e rimase in attesa. Filaurel ora piangeva apertamente, ed egli la strinse al petto e mormorò: «Fanciulla, lascia che ti racconti come morì tuo fratello».

La stanza piombò improvvisamente in un silenzio profondo. «Mi imbattei per caso in una pattuglia di cui faceva parte Iymbryl, nel cuore della foresta…»

«Una pattuglia che mio figlio comandava», sbottò Namyriitha.

El inclinò la testa con aria grave. «Signora, è come voi dite: non volevo mancarvi di rispetto. Vidi morire gli ultimi suoi compagni, e rimase solo lui, circondato da ruukha, tanto numerosi da sopraffare i suoi e i miei incantesimi».