Fuoco blu turbinò dalla punta della spada di Naeryndam, tanto incandescente e rapido che i guerrieri si ritrassero nel bel mezzo della carica e caddero uno sopra l’altro, in un’accozzaglia di armature. Una sferzata della medesima fiamma blu lungo il tappeto sotto i loro piedi, che tuttavia rimase intatto, li fece rotolare ulteriormente, rispedendoli al loro posto. Durante la fuga un elfo lanciò la sua spada verso l’uomo disteso e immobile. Dallo scettro partì una saetta appuntita di fuoco argenteo, e la spada lanciata esplose in un arcobaleno di scintille, che vorticarono nell’aria fino a consumarsi. Una o due di esse rimbalzarono quasi ai piedi di Naeryndam.
«Che razza di tradimento è questo?», sbottò Namyriitha rivolta al mago. «Sei impazzito, venerando fratello? Quell’umano ti ha forse incantato?»
«Fate silenzio», ribatté l’anziano elfo con tono calmo e gradevole, ma, come prima, le parole furono accompagnate dal suo potere. Gli unici rumori che seguirono il loro tono imperioso furono i deboli mormorii provenienti dall’angolo in cui giaceva Ornthalas, la testa contro il muro, e i singhiozzi delle donne che cercavano di riprendere fiato.
«Negli ultimi tempi in questa casa si è gridato e sferrato incantesimi troppo alla leggera», osservò Naeryndam, «ed è stato dedicato pochissimo tempo all’ascolto, e alla riflessione. In poche generazioni diventeremo cattivi quanto gli Starym».
Le guardie e i servi fissarono l’anziano mago con sincero sbalordimento; gli Starym si consideravano la quintessenza della nobiltà e della raffinatezza, e persino i loro rivali di sempre attribuivano loro il primo posto fra le casate di Cormanthor.
Gli angoli della bocca di Naeryndam s’incresparono in quello che poteva quasi essere un sorriso, mentre osservava i volti stupiti dei presenti. Con la spada in mano fece cenno ai familiari e ai servi di disporsi davanti a lui su un lato della stanza. Quando vide che nessuno si muoveva, dalla spada fece fuoriuscire nuove lingue di fuoco che formarono archi lunghi e rabbiosi di chiaro avvertimento. Lentamente, quasi storditi, essi obbedirono.
«Ora», affermò il mago, «in via eccezionale e per breve tempo, ascolterete. Anche tu, Ornthalas, neoerede della Casata degli Alastrarra».
Un grugnito fu la sua unica risposta, ma coloro che si voltarono videro Ornthalas annuire, la faccia bianca ancora fra le mani.
«Questo giovane uomo», continuò Naeryndam, indicando con lo scettro il corpo sotto di lui, «ha invocato la legge del nostro regno. Eppure tutti voi – eccetto Filaurel, Sheedra e la piccola Nanthleene – lo avete attaccato, o avete tentato di farlo. Mi disgustate».
Si udirono mormorii di protesta, ma l’anziano elfo li soffocò col fuoco dei suoi occhi antichi, e continuò: «Si, mi disgustate. Questa casa ha un erede perché quest’uomo ha rischiato la vita per mantenere una promessa. Si è avventurato in questa città, tra centinaia di elfi che avrebbero potuto ucciderlo – e l’avrebbero fatto se avessero scoperto la sua vera natura – perché Iymbryl gli ha chiesto di farlo. Egli ha dato la sua parola a un individuo di un’altra razza che conosceva a stento, e grazie al suo altruismo, le memorie della casata, i pensieri dei nostri antenati non sono andati perduti, e noi possiamo mantenere il posto che ci spetta tra le casate principali. Tutto ciò grazie a quest’uomo, di cui non conosciamo nemmeno il nome».
«Ciononostante», iniziò sua sorella Namyriitha, «n…»
«Non ho finito», la interruppe il fratello con tono sferzante come una frusta. «Tu sei ancora più incapace di ascoltare dei giovani, sorella».
Se il momento fosse stato meno importante, e l’atmosfera meno carica di tensione e stupore, la casata riunita avrebbe potuto godersi la scena della matriarca dalla lingua tagliente che apriva e chiudeva la bocca in silenzio, come un pesce agonizzante, mentre il viso le diventava paonazzo. Ma quasi nessuno vi fece caso; tutti gli occhi erano puntati su Naeryndam, il membro più anziano degli Alastrarra.
«L’umano ha invocato la nostra legge», esclamò il mago freddamente. «Giovani, badate bene: la legge è legge. La legge non può essere manomessa o accantonata. Se lo facciamo, non saremo migliori dei ruukha più brutali o degli uomini più disonesti. Non starò con le mani in mano a guardare, mentre voi, sangue di Thurruvyn, disonorate la casata e la nostra razza. Se volete attaccare il ragazzo, dovrete passare sul mio cadavere».
Il silenzio che seguì fu spezzato da un grugnito proveniente da sotto le gambe dell’elfo; il giovane dai capelli corvini e dal naso adunco emise un involontario grido di dolore allorché si mosse. Una mano abbronzata e piuttosto sporca afferrò lo stivale dell’elfo, all’altezza della caviglia. Alla vista di ciò una delle guardie gridò e lanciò la spada.
Questa saettò diritta verso la testa arruffata del giovane, che cercava di sollevarsi attaccandosi alla gamba dell’elfo in piedi a cavalcioni sopra di lui.
Naeryndam la guardò tranquillamente arrivare, e al momento opportuno lanciò la sua, che colpì rumorosamente la lama d’acciaio e la scagliò in un angolo della stanza. «Hai le orecchie tappate, non è vero?», domandò con pacata tristezza, mentre il guerriero che aveva lanciato l’arma si fece piccino per la paura. «Quando inizierete a usare il cervello?»
«Il mio cervello mi dice che la Casata degli Alastrarra sarà per sempre disonorata e disprezzata dagli abitanti dell’intero regno di Cormanthor, come la casata che ha ospitato un uomo», esclamò amara Lady Namyriitha, sollevando enfaticamente le mani.
«Sì», le fece eco Melarue, risollevandosi dal pavimento, il dolore provocatole dallo scontro con la barriera ancora evidente sul viso. «Avete perso la testa, mio caro Zio!»
«Tu che cosa pensi, Ornthalas?», domandò l’anziano mago, guardando oltre le donne. «Che cosa dicono i nostri predecessori?»
Il giovane elfo altezzoso sembrò più triste e più serio di quanto i presenti ricordassero di averlo mai visto. La fronte era ancora corrugata per il dolore, e strane ombre turbinarono nei suoi occhi, quando ricordi, che non erano i suoi, lo travolsero in un flusso infinito e stupefacente. Lentamente, con riluttanza, rispose, «La prudenza ci chiede di condurre quell’uomo dal Coronal, affinché la nostra casata non venga macchiata». Il giovane erede spostò lo sguardo da un alastrarrano all’altro. «Inoltre, se gli torceremo un solo capello, verremo spogliati del nostro onore. Quest’uomo ci ha reso più servizi di qualsiasi elfo vivente, eccetto voi, nobile Naeryndam».
«Ah», esclamò il mago, soddisfatto. «Ah, ci siamo. Vedi, Namyriitha, quale tesoro è la kiira? Ornthalas la indossa per pochi istanti e già acquisisce il buon senso».
La sorella si irrigidì, nuovamente seccata, ma Ornthalas sorrise mestamente, e affermò: «Temo che voi diciate la nuda verità, Zio. Abbandoniamo questo campo prima che scoppi la battaglia, e torniamo ai nostri canti. Lasciamo che le canzoni siano il nostro ricordo di Iymbryl, mio fratello, fino al sorgere dell’alba o finché ci colga il sonno. Sorelle, vi unirete a me?»
Il neo erede allargò le braccia, e dopo un momento di esitazione Melarue e Filaurel accettarono l’invito, e i tre uscirono insieme dalla stanza.
Prima di giungere alla porta, Filaurel si voltò a guardare l’umano, che si stava rimettendo in piedi scuotendo la testa. Nuove lacrime luccicarono nei suoi occhi quando gridò: «I miei ringraziamenti, giovane umano».
«Mi chiamo Elminster», rispose l’uomo dal naso adunco, sollevando il capo e parlando ora la lingua elfa con uno strano accento. «Principe di Athalantar».