«Le nostre vite devono sembrare effimere agli elfi», mormorò El, mentre il sentiero saliva fra piccoli pergolati dai sedili curvi, immersi tra i cespugli e superava rivoli calmi e piccoli specchi d’acqua.
«È come dici», affermò il mago, «ma mi riferivo piuttosto al pericolo che corri in questo momento. D’ora in poi parla con la medesima gentilezza con cui ti sei rivolto al guardiano, ragazzo, o potresti trovare la morte questa stessa notte».
Il giovane accanto a lui rimase in silenzio per qualche istante. «Devo inginocchiarmi davanti al Coronal?», domandò infine, mentre s’accingevano a salire alcuni scalini di pietra fra due strani alberi dalla corteccia a spirale, che portavano a un patio ampio, rischiarato da piante luminose.
«Lasciati guidare dall’espressione del suo volto», rispose il mago semplicemente, mentre avanzavano senza fretta.
Un elfo sedeva nel vuoto al centro dello spazio pavimentato, con un libro aperto, un vassoio di bottiglie alte e sottili, e un poggiapiedi, tutti fluttuanti nell’aria intorno a lui. Due elfi incappucciati, avvolti da un’aura di potere, stavano in piedi accanto a lui, uno per parte; alla vista dell’umano scivolarono rapidamente in avanti per sbarrargli la strada, rallentando solo un poco quando videro Naeryndam Alastrarra dietro il ragazzo.
«Voi dovete aver aiutato quest’intruso a superare i guardiani», sbottò uno dei maghi elfi rivolto al vecchio, senza degnare Elminster di uno sguardo, come fosse una colonna o una scultura ricoperta di sterco d’uccello. La sua voce era fredda e rabbiosa. «Perché l’hai fatto? Che cosa può aver contaminato il cuore di uno che ha servito il regno tanto a lungo? I tuoi parenti ti hanno mandato qui per punizione?»
«Nessuna contaminazione, Earynspieir», rispose calmo Naeryndam, «né punizione, ma una questione di stato che richiede il giudizio del Coronal. Quest’uomo ha invocato la nostra legge, e per tale ragione è qui, ancora vivo».
«Nessun umano può accampare diritti sotto le leggi di Cormanthor», ribatté seccamente l’altro mago. «Solo la nostra Gente ha diritto alla cittadinanza del regno: elfi e affini».
«E come giudichereste un uomo che ha portato la kiira di un’antica casata di Cormanthor, ma non come trofeo di battaglia, e ha percorso le strade della nostra città fino a trovare l’erede legittimo a cui consegnarla?»
«Crederei a tale favola solo se potesse essere provata oltre ogni dubbio», rispose Earynspieir. «Di quale casata si tratta?»
«Della mia», ribatté Naeryndam.
Durante il breve silenzio creato da quelle parole, l’anziano elfo seduto affermò: «Basta con le chiacchiere, signori. Quest’uomo è qui, che io possa giudicarlo: portatemelo».
Elminster aggirò il mago che gli era più vicino e avanzò coraggiosamente verso il Coronal. Non vide il mago voltarsi e sferrare su di lui un incantesimo mortale, immediatamente invalidato dallo scettro di Naeryndam, pronto per tale evenienza.
Quando il giovane principe si inginocchiò davanti al governatore di Cormanthor, il secondo mago si accinse a colpirlo con un’altra magia, ma il Coronal, accortosi, sollevò una mano, e quella magia, sfrecciante verso la testa del ragazzo come un dardo avvelenato, cessò di esistere. «Basta con gli incantesimi, signori», ordinò gentilmente il governatore. «Lasciate che conosca quest’uomo», aggiunse guardando Elminster negli occhi.
La bocca di El si fece improvvisamente secca. Gli occhi del re elfo erano come buchi aperti nel cielo notturno. Le stelle vi nuotavano e sfavillavano in profondità; si poteva quasi cadere in quelle pozze scure ed essere trascinati giù, sempre più in basso…
Il giovane scosse il capo per schiarirsi la mente, strinse i denti nello sforzo, e appoggiò un piede sul pavimento. Cercò di raddrizzare quella gamba, per rimettersi in piedi, ma sembrava che stesse sollevando una torre sulle spalle. Grugnì, e non si diede per vinto.
Dietro di lui, i tre maghi elfi si scambiarono occhiate stupite. Neppure loro avrebbero potuto opporsi alla volontà del Coronal, una volta bloccati dalla sua mente.
Il volto bianco, le membra tremanti, rivoli di sudore sulle guance e sul mento, il giovane dai capelli corvini si alzò lentamente, lo sguardo ancora fisso in quello del Coronal, finché non fu in piedi accanto all’elfo seduto.
«Mi resisti?», sussurrò il vecchio.
Le labbra di El si mossero con lentezza agonizzante mentre tentava di formare parole. «No», rispose infine, lentamente e deliberatamente. «Siete il benvenuto nei miei pensieri. Non stavate tentando di farmi alzare?»
«No», esclamò il Coronal, voltando il capo e tranciando di netto il legame fra i loro sguardi. «Ho lottato per farti rimanere in ginocchio, per dominare la tua volontà», rispose accigliato, due fessure al posto degli occhi. «Forse qualcun altro opera attraverso di te».
«Per tutti gli dei!», gridò il mago Earynspieir, insinuandosi tra Elminster e il suo re. «È proprio questo il pericolo da cui dovete essere protetto! Chi sa quale incantesimo mortale potrebbe esser fatto su di voi, attraverso questo giovane?»
«Tenetelo in schiavitù, allora, se dovete», esclamò il Coronal ironicamente. «Tutti e tre. E tu, Earynspieir, fai in modo che non si verifichino incidenti “fortuiti”, colli rotti, polmoni congelati, o cose simili. Mediante lo scettro scoprirò chi serve il ragazzo, dopodiché leggerò i suoi ricordi sulla questione della kiira».
Da uno dei vassoi fluttuanti nelle vicinanze, l’elfo dalla tunica bianca prese ciò che sembrava una bacchetta di vetro color rosso violaceo, liscia e diritta, non più spessa del suo mignolo. Sembrava potesse rompersi al primo colpo di vento.
El si ritrovò sollevato da terra, immobile nel vuoto, le braccia aperte e rigide. Poteva muovere gli occhi, la gola, e sollevare il petto: tutto il resto era stretto come in una morsa d’acciaio.
Una luce apparve all’estremità della bacchetta, e la percorse rapidamente per tutta la sua lunghezza. L’anziano elfo la puntò pacatamente verso la testa di Elminster, ed entrambi guardarono il sottile raggio di luce fuoriuscire dalla bacchetta e muoversi nell’aria, pigramente, per poi toccare la fronte di El.
Un freddo intenso pervase il giovane da capo a piedi. Mentre tremava lassù, a mezz’aria, El udì il battito incontrollabile dei suoi denti, e poi i mormorii di sorpresa dei quattro elfi.
«Che cosa succede?», tentò di esclamare, ma tutto ciò che gli uscì dalle labbra congelate fu un gorgoglio confuso. Improvvisamente si accorse che la sua bocca era libera dalla schiavitù magica, e che il suo corpo si stava voltando – o meglio veniva voltato – nell’aria, fino a ritrovarsi di fronte a un’immagine diafana che dominava il patio. I contorni spettrali di un volto che conosceva.
Un viso sereno, tranquillo, li osservava con gentile interesse. I suoi occhi si illuminarono quando si posarono su Elminster.
«È chi penso io, ragazzo?», domandò il Coronal gentilmente.
«È la dea Mystra», gli rispose semplicemente il principe. «Io sono suo servo».
«Questo l’avevo sospettato», ribatté l’elfo con un pizzico di sarcasmo. Un momento dopo, lui e il giovane umano svanirono insieme, lasciando vuoti il trono fluttuante, e l’aria davanti ad esso.
I tre maghi rimasero a fissare il nulla, poi si scambiarono occhiate perplesse. Earynspieir si voltò per scrutare nuovamente il cielo. La gigantesca faccia iniziò a scomparire; le trecce diafane si agitavano come serpenti irrequieti mentre questa si allontanava dal giardino del re elfo.
Ma ciò che fece spaventare i maghi, che iniziarono a balbettare i nomi dei loro dei, fu il modo in cui quel meraviglioso volto di donna li guardò negli occhi uno a uno, illuminandosi di un ampio sorriso di soddisfazione.
Qualche attimo più tardi il volto svanì.