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«Devo confessare che sto ancora gongolando per il successo ottenuto da Duilya», esclamò Alaglossa Tornglara, una volta allontanatasi dai servi. I due gruppetti di paggi in uniforme appoggiarono cautamente gli acquisti delle padrone sul ciglio della strada, e rimasero in paziente attesa, a guardia dei pacchi.

«Non sarà sempre tanto facile, temo», mormorò Ithrythra Mornmist.

«Hai ragione; hai visto Lady Auglamyr? Amaranthae, intendo. Oggi era quieta e silenziosa come una statua; mi domando se il corteggiamento di un certo mago supremo non la stia infastidendo».

«No», rispose lentamente Ithrythra, «si tratta di qualcosa d’altro. È preoccupata per qualcuno, non per se stessa. Bada appena a ciò che indossa, e invia paggi per continue commissioni. Ha perso qualcosa… o qualcuno».

«Mi domando che cosa possa essere accaduto», sospirò Lady Tornglara, i bei lineamenti improvvisamente oscurati da un velo di solennità. «Deve trattarsi di qualche cosa di serio, ci scommetto».

«Ora si tessono intrighi per strada?» La voce che le colse di sorpresa aveva un non so che di arrogante; Elandorr Waelvor, fiore all’occhiello della terza casata più antica del regno, aveva un’aria molto allegra.

Era elegante col suo giustacuore di velluto nero bordato da fulmini bianchi, col mantello purpureo dalla fodera color magenta e con gli stivali di un nero sfavillante, alti fino alle cosce. Le sue dita sottili erano adorne di anelli, e il fodero d’argento gemmato della spada d’onore era tanto lungo da sbattergli a ogni passo contro la caviglia. Le due donne osservarono il suo incedere impettito, i volti inespressivi.

Elandorr sembrò percepire la loro tacita disapprovazione; abbassò la testa, intrecciò le mani dietro la schiena e cominciò a girare loro intorno.

«Nonostante sia piacevole vedere le casate più giovani e vigorose di Cormanthor interessate ai fatti del regno», affermò con disinvoltura, «debbo avvertirvi, signore, che troppe chiacchiere sugli affari importanti potrebbero portare guai. Recentemente sono stato costretto, mio malgrado, a stroncare gli eccessi comportamentali della capricciosa Lady Symrustar, della casata novella degli Auglamyr. Avrete certo udito qualche notizia, trasportata dai deplorevoli venti del pettegolezzo, da cui sembra essere afflitta tanto intollerabilmente la nostra amata città.

L’impennata della sua voce, il tono inquisitorio e la fronte aggrottata esigevano naturalmente una risposta, e il mago rimase momentaneamente disorientato quando le due signore sollevarono silenziosamente un sopracciglio di sdegno, lo fissarono simultaneamente e non proferirono parola.

Elandorr, gli occhi brillanti d’irritazione, si sottrasse ai loro sguardi, e spostò il mantello con un gesto solenne. Poi si portò la mano al petto, sospirò teatralmente, e si volse nuovamente verso di loro. «Mi dispiacerebbe profondamente», affermò con tono accorato, «udire in città la medesima tragica notizia riguardante le fiere signore Mornmist e Tornglara. Tuttavia tali disgrazie succedono molto spesso alle donne che non stanno al proprio posto, nella nuova Cormanthor».

«Di quale “nuova Cormanthor” parlate, Lord Waelvor?», domandò piano Alaglossa, gli occhi spalancati.

«Suvvia, del regno che ci circonda, conosciuto e amato da tutti i veri cormanthoniani. Di questo reame, come sarà tra una luna o due, rinnovato e rimesso sulla giusta strada, quella dei nostri antenati, e di quelli prima di loro».

«Rinnovato? Da chi, e come?», s’intromise maliziosa Ithrythra. «Da giovanotti timidi e gongolanti?»

Elandorr la guardò in cagnesco, e le mostrò i denti in un sorriso poco amichevole. «Non dimenticherò la vostra insolenza, “Signora”, e agirò di conseguenza: statene certa!»

«Lord, vi aspetterò», esclamò l’elfa, abbassando il capo con rispetto, roteando nel contempo gli occhi.

Con un grugnito Elandorr la superò, allargando deliberatamente un gomito per colpirla sulla testa ma, mentre la donna si toglieva dalla sua portata, si ritrovò a colpire la schiena di un servo apparso dal nulla per assistere Lady Tornglara. Il mago si guardò attorno rabbiosamente e vide i servi di entrambe le donne stringersi su di lui con pugnali e fruste tra le mani. Il rampollo dei Waelvor ringhiò e affrettò il passo, sottraendosi agli elfi armati.

I servi allora si radunarono intorno alle padrone, che si guardarono in faccia e scoprirono che entrambe avevano gli occhi più scuri, il respiro affannoso, le narici fumanti, e la punta delle orecchie rossa di rabbia.

«Un nemico pericoloso, e ora pienamente consapevole di te, Ithrythra», la avvertì delicatamente Alaglossa.

«Ah, ma guarda quanto ha spifferato sui progetti futuri di qualcuno, solo per aver perso la calma», ribatté Ithrythra. Poi guardò i servitori attorno a loro ed esclamò: «Vi ringrazio tutti. È stato coraggioso da parte vostra gettarvi nel pericolo, quando avreste potuto – dovuto – starvene al sicuro».

«No, Signora; era tutto ciò che potevamo fare, anche per mantenere il nostro onore», mormorò uno dei più anziani.

Ithrythra gli sorrise e rispose: «Bene, se mai mi dovessi comportare tanto maleducatamente come quel giovanotto, avete il mio permesso di gettarmi nel fango e di usare quel frustino una o due volte sul mio posteriore!»

Vi fu un generale scroscio di risa, che dopo pochi istanti si affievolì lentamente, quando, uno alla volta, servi e padrone, si voltarono e guardarono lungo la strada, per scoprire che Elandorr Waelvor non si era, dopotutto, allontanato tanto. Il mago ovviamente pensò che stessero ridendo alle sue spalle, e rimase a fissarli con gli occhi colmi d’odio.

Lord Ihimbraskar Evendusk fluttuava a suo agio parecchi centimetri sopra il letto, nudo come il giorno della sua nascita, e sorrideva alla sua signora come un giovane elfo innamorato.

Lady Duilya Evendusk ricambiò il sorriso, il mento appoggiato sulle mani, i gomiti in aria. Indossava soltanto sottili catene d’oro tempestate di gemme, che penzolavano sul letto sottostante.

«Dunque, marito mio, quali sono le novità di oggi?», mormorò, ancora soddisfatta che Ihimbraskar, dopo la riunione di corte, si fosse precipitato a casa a svestirsi, e che avesse reagito con gioia, e non con irritazione, trovandola in attesa a letto. La bottiglia di sherry triplo, formalmente ignorata, era ancora sul pavimento dove la donna aveva ordinato che fosse messa; Duilya dubitava che il marito ne avesse bevuto una sola goccia da quando lei si era scolata l’intera bottiglia. Si domandava quando – e soprattutto se – avrebbe osato rivelargli della magia compiuta dalle sue amiche per consentirle di bere tanto.

«Tre nobili», le raccontò Ihimbraskar, «Haladavar, Urddusk e quel serpente di Malgath, sono venuti a Corte e hanno domandato al Coronal di riconsiderare l’Apertura. Avevano spade da tempesta, e minacciarono di usarle».

«E sono ancora vivi?», domandò ironicamente Duilya.

«Sì. Eltargrim ha scelto di considerare le loro armi quali “errori di giudizio”».

Duilya sbuffò. «L’armathor nemico sputò sangue quando il mio errore di giudizio lo colpì nelle parti vitali», dichiarò animatamente, agitando una mano. L’elfo ridacchiò.

«Aspetta, tesoro, c’è dell’altro», affermò, rotolandosi. Lei alzò le spalle affinché parlasse, e i capelli le scivolarono sulla schiena.

Ihimbraskar osservò le sue trecce oscillare avanti e indietro, poi continuò: «Il Coronal ha osservato che le loro preoccupazioni erano valide, ha domandato alla sua messaggera di spaventarci tutti con testimonianze sulla potenza bellica umana, e affermato che l’Apertura si farà: ma solo dopo che la città sarà stata avvolta da un gigantesco mantello magico!»

Duilya si accigliò. «Che cosa? Ancora il “mythal” del vecchio e folle Mythanthar? A che cosa servirà, se il regno sarà aperto a tutti?»