«Che cosa?», urlò la moglie. «Che cosa sta succedendo?»
«Il Mythal», rispose Nelaeryn Mornmist, la voce quasi rotta dal pianto. «Oh, come abbiamo potuto essere tanto ciechi? Avremmo dovuto farlo secoli fa!»
E poi l’elfo iniziò a cantare una melodia infinita, priva di parole.
Ithrythra lo fissò per qualche minuto, la faccia pallida e preoccupata. Il marito si sollevò un po’ più in alto, i piedi nudi oltre il mento della donna, che, improvvisamente spaventata gli afferrò le caviglie, e vi rimase aggrappata.
Il canto la pervase, e con esso tutte le sensazioni che il marito stava provando. E fu così che Ithrythra Mornmist fu il primo elfo non-mago in Cormanthor a sentire il mythal. Quando un servo li trovò qualche minuto più tardi, Lady Mornmist era abbarbicata attorno ai piedi del marito, tremante e in estasi.
Alaglossa Tornglara si irrigidì e si mise a sedere sul bordo della Danza del Satiro, grondando acqua da ogni curva del corpo. «Sta accadendo qualcosa. Riesci a sentirlo?» domandò alla serva inginocchiata accanto a lei con profumi e spazzole.
La ragazza non rispose. Formicolante fin nella punta delle dita, Lady Tornglara si voltò bruscamente per ottenere una risposta, e rimase di sasso.
La serva fluttuava nell’aria, ancora inginocchiata con una bottiglia di profumo in mano, lo sguardo fisso. Minuscole scintille ammiccavano intorno ai suoi occhi, le entravano e le uscivano dalla bocca aperta. La giovane iniziò a gemere, come eccitata, dopodiché il suono emesso dalla sua gola si trasformò in una canzone muta e infinita.
Alaglossa iniziò a gridare e, quando la serva – Nlaea era il suo nome, sì, decisamente – cominciò a salire più in alto, si alzò sulle punte dei piedi e l’afferrò per un braccio.
Il servo che udì lo strillo e fece di corsa il lungo percorso tra i giardini, raggiunse ansimante la piscina, e rimase a guardarle: la serva fluttuante e la padrona, gli occhi spalancati e fissi nel vuoto. Erano entrambe nude, e stavano mormorando una canzone. Le osservò nei più intimi dettagli, deglutì, poi corse via. Sarebbe finito nei guai se fossero rinsavite e l’avessero colto a guardarle.
L’elfo scosse il capo più di una volta e tornò al suo lavoro d’annaffiatura.
Galan Goadulphyn imprecò e si tastò in cerca dei pugnali. Era proprio scalognato: a due passi dalla città, con tutte le gemme nane che riuscivano a contenere i suoi stivali, in che cosa si doveva imbattere? In una pattuglia elfa! Diede un’occhiata agli alberi alle sue spalle, già sapendo che non si sarebbe potuto nascondere, anche se fosse stato sufficientemente rapido da seminarli. Con uno sforzo abbandonò la sua andatura stanca e strascicata e assunse un’aria da gran signore.
«Ehilà, guardie! Ci sono novità?»
«Alto là, umano», esclamò serio l’armathor più vicino. «La città verrà aperta domani a mezzogiorno, se tutto va bene. Fino ad allora, non potrai spingerti oltre».
Incredulo, Galan inarcò un sopracciglio, e poi si levò la sciarpa sudicia dalla testa. E con essa si staccarono, piuttosto dolorosamente, anche i falsi basettoni lungo le guance.
«Vedete queste?», esclamò, spostando avanti e indietro una delle orecchie con un dito sudicio. «Non sono umano».
«Per la verità, dall’aspetto non sembrate nemmeno un elfo», rispose l’armathor con occhi severi. «Abbiamo visto altre volte doppelganger».
«Basta con gli scherzi da vecchie comari», ribatté Galan, ondeggiando i fianchi. Il capitano gli lanciò un’occhiataccia, mentre il resto della pattuglia scoppiò a ridere. «Intendete dire che finalmente hanno fatto funzionare quel mythal? Dopo tutti questi anni?»
Le guardie si scambiarono alcuni sguardi. «Dev’essere un cittadino», affermò una di loro. «Dopotutto nessun altro ne è al corrente».
«Bene, potete passare», esclamò riluttante il capopattuglia. «Vi suggerisco di trovare un luogo per lavarvi», aggiunse.
Galan si drizzò. «Perché? Se avete intenzione di lasciar entrare gli umani, che importanza ha? Hmmmph. Tra un po’ mi direte che i nani governano la città!»
«Proprio così», ribatté l’armathor, tra i denti. «E ora fuori dai piedi!»
Galan gli fece un allegro cenno di saluto. «Grazie, “mio prode‘» esclamò con disinvoltura, poi sfilò un rubino grande come un acino d’uva dallo stivale destro, e lo porse alla guardia sbalordita. «Questo è per il disturbo».
Mentre procedeva verso la città, Galan fischiettò allegramente. Quel gesto – per tutti gli dei, che espressione avevano i loro volti! – era valso un rubino. Be’, mezzo rubino. Diamine, era forse troppo tardi per tornare a riprenderselo?
Uldreiyn Starym risalì la sottile linea di fuoco creata dal suo meticoloso incantesimo, toccò la rete di fuoco bianco, e si lasciò trasportare da essa. Una grande ondata di potere lo investì.
Mentre saettava lungo i suoi fili, il mago sottrasse qua e là fiamme e filamenti e si creò un mantello col quale mimetizzarsi.
Era uno dei maghi più potenti di tutta Cormanthor, e se il vacillante Mythanthar poteva tessere tutto ciò, allora l’anziano Lord Starym poteva dominare il suo operato, avvolgersi in esso, e nascondere la sua identità mentre percorreva quei filamenti bianchi, scintillanti attraverso la città e giù, giù verso il buco aperto nel tetto di Corte.
Il suo corpo era ancora adagiato sulla sedia nella stanza custodita dai draghi, nella torre più alta di Casa Starym, quella che si ergeva un po’ in disparte. Abbandonarlo lo rendeva vulnerabile: d’altro canto, era certo che quei «tessitori» in estasi non lo avrebbero notato finché non avesse fatto qualcosa di eclatante che, naturalmente, era il suo obiettivo.
Anche un bambino era in grado di cavalcare un incantesimo vorticante, una volta mostratogli come fare, ma egli desiderava compiere molto, molto di più. In un mondo in cui quelli come Ildilyntra Starym morivano e i poppanti stupidi come Maeraddyth dovevano esser tenuti in vita, ci si doveva fare giustizia da sé.
Ora si stava calando rapidamente attraverso il soffitto. I maghi erano tutti raggruppati, ed egli doveva colpire quello giusto senza indugi, senza farsi notare da quella piccola megera della Srinshee o da uno degli altri sconosciuti.
Cavalcare le fiamme – una sensazione esilarante, dovette ammettere – giù, giù verso… sì! Addio, Aulauthar!
La sua morte ci rattrista enormemente, pensò Uldreiyn crudele, mentre scagliava tutta la forza della sua volontà contro la mente timida e perfezionista della vittima designata. Questa si sbriciolò in un istante, sommergendolo di ricordi caotici, mentre la volontà del mago sguazzava e spingeva spietatamente in tutte le direzioni.
I cortigiani videro uno dei pilastri viventi di fuoco bianco oscillare per un istante, ma non percepirono altri segni del feroce attacco che ridusse in cenere cervello e budella di Lord Aulauthar Orbryn e trasformò il suo corpo in un guscio senza mente.
Ora era finalmente parte dell’intreccio, parte del flusso impetuoso di nuovi poteri. Orbryn stava elaborando la parte del Mythal che identificava le creature per razza. I draghi dovevano esser tenuti fuori, non è vero? I doppelganger, naturalmente, e anche gli orchi.
Bene, perché non ampliare l’eccellente lavoro di Aulauthar e rendere il Mythal mortale per tutti gli elfi non purosangue? Mortale a partire, per esempio, da domani a mezzogiorno. Avrebbe ucciso volentieri Elminster, ma svegliare ora quel potere avrebbe distrutto altri due tessitori del Mythal – il Mentore e la mezzo sangue – il che avrebbe significato essere scoperto immediatamente. E dopo aver eliminato Uldreiyn Starym, i restanti avrebbero semplicemente dato vita a un altro Mythal per rimpiazzare quello da lui distrutto.
Oh, no, meglio attendere un po’: aveva piani ben più grandi di quello.