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Può darsi che il chip nella tavoletta di scrittura abbia piena memoria di ciò che ho scritto… di ciò che scriverò nei giorni a venire, se il destino me li concederà… ma la verità è che in realtà me ne frego. Solo la decina di pagine di micropergamena m'interessa ogni giorno… pagine intonse e vuote al mattino, pagine spiegazzate e schizzate d'inchiostro e coperte della mia scrittura angolosa ogni sera.

Allora Aenea viene in vita per me.

Ma ieri notte (quando nella mia scatola di Schrödinger le luci erano spente e nulla mi separava dall'universo, a parte il guscio statico-dinamico d'energia congelata intorno a me, con la sua piccola fiala di cianuro, il timer ticchettante e il sicurissimo rivelatore di radiazione) ieri notte ho udito Aenea gridare il mio nome. Mi sono alzato a sedere, nel buio totale, sicuro di sognare ancora, quando ho sentito le sue dita toccarmi la guancia. Erano le sue dita. Le conoscevo, quando lei era bambina. Le ho baciate, quando era donna. Le toccai con le labbra, quando loro la portarono via da me, alla fine.

Le sue dita mi toccarono la guancia. Il suo alito era tiepido e dolce contro il mio viso. Le sue labbra erano calde contro le mie.

— Ora ce ne andiamo, Raul, amore mio — mormorò nel buio ieri notte. — Non subito, ma appena avrai terminato il tuo racconto. Non appena l'avrai ricordato tutto e capito tutto.

Allora allungai la mano, ma il suo tepore si allontanava. Quando le luci si accesero, il mio mondo a forma d'uovo era vuoto.

Andai avanti e indietro finché non giunse il momento normale della sveglia. In quei giorni, in quei mesi, la mia paura più grande non è stata la morte (Aenea mi ha insegnato come guardare in prospettiva la morte) ma la follia. La pazzia mi deruberebbe della lucidità, dei ricordi… di Aenea.

Allora ho visto una cosa che mi ha bloccato. La tavoletta di scrittura era accesa. Lo stilo non era nel suo solito posto, ma infilato sotto la copertura della tavoletta, proprio come Aenea teneva la penna ripiegata nel diario, durante i nostri viaggi dopo avere lasciato la Terra. Con dita tremanti ho riciclato lo scritto di ieri e ho acceso la stampante.

È uscita solo una pagina, coperta di righe manoscritte. La grafia di Aenea: la conosco bene.

Questa per me è una svolta. O sono davvero impazzito e niente di tutto questo conta, oppure sono salvo e allora conta fin troppo.

Leggo questo foglio, come fate voi, con la speranza della sanità mentale e della salvezza, non della mia anima, ma di me stesso, nella rinnovata certezza della riunione… riunione reale, riunione fisica… con la persona che ricordo e che amo su tutti.

E questa è la migliore ragione per leggere.

60

Raul, consideralo un poscritto ai ricordi che hai messo nero su bianco oggi e che io leggo stanotte. Anni fa, anni fa… in quelle ultime tre ore del nostro viaggio, quando tu, mio caro Raul, e il caro addormentato A. Bettik e io volammo sulla navetta a sudovest verso Taliesin West e il mio lungo apprendistato laggiù, avevo l'intenso desiderio di dirti tutto, quel giorno: i sogni che mostravano noi due come amanti che i poeti avrebbero cantato, visioni dei grandi pericoli che si prospettavano, sogni della scoperta di amici, sogni della morte di amici, certezza d'indicibile dolore da sopportare, certezza d'inimmaginabili trionfi ancora non nati.

Non ti dissi niente.

Ricordi? Durante il volo abbiamo sonnecchiato. Com'è strana a volte la vita… le nostre ultime ore insieme, da soli, la fine di uno dei periodi più intimi della nostra vita insieme, la fine della mia fanciullezza e l'inizio del nostro tempo da uguali… e per la maggior parte dei nostri ultimi minuti abbiamo dormito. In cuccette separate. La vita è brutale, a volte… la perdita, fra banalità e distrazioni, di momenti irrecuperabili.

Ma eravamo stanchi. Erano stati giorni duri.

Mentre la navetta iniziava la discesa sul deserto sudoccidentale verso Taliesin West e la mia nuova vita, presi una pagina del mio diario insudiciato (era sopravvissuto all'acqua e alle fiamme, al contrario di gran parte dei miei vestiti) e scrissi in fretta un messaggio per te. Tu dormivi. Tenevi il viso contro il vinile della cuccetta antiaccelerazione e sbavavi un poco. Non avevi sopracciglia, bruciate al pari di una parte dei capelli in cima alla testa, e il tuo aspetto era buffo… un pagliaccio sorpreso mentre dormiva. (In seguito parlammo di pagliacci, ricordi, Raul? durante la nostra odissea fra gli Ouster. Da bambino tu avevi visto i pagliacci in un circo a Port Romance; io li avevo visti a Jacktown, durante l'annuale Fiera dei Primi Coloni.)

Le ustioni e l'unguento applicato in abbondanza alle guance e alle tempie, intorno agli occhi e sul labbro superiore, sarebbero parsi a tutti il trucco di un pagliaccio… rosso e bianco. Eri bellissimo. Ti amavo, in quel momento. Ti amavo indietro e avanti nel tempo. Ti amavo al di là dei confini del tempo e dello spazio.

Scrissi in fretta il messaggio, lo infilai nei resti del taschino della tua camicia sbrindellata e ti baciai delicatamente all'angolo della bocca, nell'unico punto non ustionato e spalmato d'unguento. Ti muovesti nel sonno ma non ti svegliasti. Il giorno seguente (e neppure in altre occasioni) non parlasti del messaggio e mi sono sempre domandata se lo trovasti o se ti cadde di tasca o se lo gettasti senza leggerlo quando a Taliesin buttasti via la camicia.

Le parole erano parole di mio padre. Le scrisse secoli fa. Poi morì e rinacque… in un certo modo… come cìbrido e morì di nuovo come uomo. Ma viveva ancora in essenza: la sua personalità girovagò nel metaspazio e a un certo punto lasciò Hyperion in compagnia del Console, nelle eliche DNA dell'IA della nave. Le ultime parole che rivolse a mia madre resteranno per sempre sconosciute, malgrado la licenza poetica di zio Martin nei Canti. Ma queste parole furono trovate nel testo-stilo di mia madre, quando lei si svegliò quel mattino dopo la partenza finale di mio padre, e lei conservò per tutta la vita lo stampato originale. Lo so benissimo: entravo di nascosto in camera sua, a Jacktown, su Hyperion, per leggere la frettolosa scritta sul foglio di pergamena ingiallita, almeno una volta alla settimana, fin da quando avevo due anni.

Quelle erano le parole che ti diedi, con un bacio mentre ancora dormivi, l'ultima ora dell'ultimo giorno del nostro primo viaggio, mio amato Raul. Quelle sono le parole che ti lascio stanotte, con un bacio mentre sei sveglio. Quelle sono le parole che pretenderò da te quando tornerò la prossima volta, quando il racconto sarà completato e inizierà il nostro viaggio finale.

Un bell'oggetto è gioia per sempre: la sua bellezza aumenta; per sempre non cadrà in nulla, ma manterrà dimora quieta per noi e sonno pieno di dolci sogni e salute e quieto respiro.

E così, Raul Endymion, finché non c'incontreremo di nuovo sulle tue pagine, in folle estasi, ti dico adieu…

Tu figlio adottivo di silenzio e lento tempo, storico silvano che può così esprimere un fiorito racconto più dolce dei nostri versi: quale leggenda frangiata di foglie tormenta la tua forma di divinità o di mortale, o d'entrambi, in Tempe o nelle storie d'Arcadia? Che uomini o dèi sono questi? Che riluttanza di fanciulle? Che folle ricerca? Che lotta per sfuggire? Che flauti e tamburelli? Che folle estasi?

Per ora, amore mio, ti auguro dolci sogni e salute e quieto respiro.

FINE