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— Era ora che si ricordasse di me, crocesanta! — sbottò il grassone, mentre m’avvicinavo a guado. Era già entrato nella botte e si era bagnato i calzoni di stoffa camaleonte. Bolle di metano fra la barca e la foce dell’immissario indicavano la presenza di una grossa sacca di fanghiglia mobile, per cui, quando andavo e tornavo, dovevo tenermi vicino al banco di fango.

— Non la paghiamo per sprecare così il suo tempo, crocesanta! — ringhiò ancora, senza togliersi di bocca il grosso sigaro.

Annuii, gli tolsi di bocca il sigaro acceso e lo tirai lontano dalla sacca di fanghiglia mobile: per nostra fortuna, le bolle di metano non avevano preso fuoco. — Le anatre sentono l’odore del fumo — dissi, senza badare al fatto che era rimasto a bocca aperta e che diventava sempre più rosso.

M’infilai nella cinghia di traino e rimorchiai la botte in piena palude, aprendomi col petto un varco fra le alghe rosse e arancione che dal mio ultimo passaggio avevano già ricoperto la superficie dell’acqua.

Accarezzando la costosa e inutile carabina a energia, Herrig mi lanciò un’occhiata velenosa. — Ragazzo — mi apostrofò — stai attento a come parli o t’insegno io, crocesanta! — Il suo poncho e il giubbotto di stoffa camaleonte non erano ben chiusi, lasciavano scorgere intorno al collo lo scintillio di una doppia croce d’oro della Pax e sul petto il rosso gonfiore del vero e proprio crucimorfo. Herrig era un cristiano rinato.

Rimasi in silenzio e sistemai nel modo dovuto la sua botte, a sinistra dell’immissario. Ora quei quattro esperti potevano sparare verso il centro della palude senza colpirsi l’un l’altro. — Tiri giù il telo e guardi dalla feritoia — dissi, staccando la cinghia di traino e legandola a una radice di chalma.

Herrig emise un borbottio, ma lasciò il telo mimetico arrotolato alle sbarre della cupola.

— Prima di sparare, aspetti che abbia sistemato le anatre da richiamo — soggiunsi. Indicai la posizione degli altri cacciatori. — E non spari verso la foce dell’immissario. Là ci sarò io, sulla barca.

Herrig non rispose.

Scrollai le spalle e tornai alla barca. Izzy era rimasta seduta dove le avevo ordinato di stare, ma dai muscoli tesi e dallo scintillio degli occhi capivo che in spirito saltellava avanti e indietro come un cucciolo. Le accarezzai il collo, senza salire sulla barca. — Ancora qualche minuto, bella — mormorai. Liberata dall’ordine di stare ferma, Izzy corse a prua e io cominciai a rimorchiare la barca verso la foce dell’immissario.

I luminosi ragnatelidi erano scomparsi e in alto svanivano le scie delle piogge di meteoriti, mentre la luce che precede l’alba s’addensava in un lucore latteo. La sinfonia d’insetti e il gracidio delle bande d’anfibi lungo i banchi di fango lasciavano posto ai richiami mattutini degli uccelli e di tanto in tanto al grugnito di un’aguglia che gonfiava la vescica in segno di sfida. A est il cielo cominciava a scurirsi nel color lapislazzuli del pieno giorno.

Tirai la barca al riparo delle fronde, con un gesto ordinai a Izzy di restare a prua e da sotto i banchi tolsi quattro anatre da richiamo. Lungo la riva c’era un sottilissimo strato di ghiaccio, ma il centro della palude era libero; cominciai a sistemare le anatre da richiamo, mettendole in funzione una alla volta. L’acqua m’arrivava sempre al petto.

Tornato alla barca, m’acquattai accanto a Izzy, nascosto dalle fronde. Allora giunsero le anatre vere. Izzy le sentì per prima: s’irrigidì e alzò il naso, come se le fiutasse nel vento. L’attimo dopo si udì il fruscio d’ali. Mi sporsi a scrutare dal fogliame in continuo movimento.

Nel centro della palude le anatre da richiamo nuotavano e col becco si lisciavano le penne. Una inarcò il collo e lanciò il richiamo, proprio mentre i veri germani reali comparivano sopra la linea d’alberi a sud. Tre germani si staccarono dallo stormo, protesero le ali per frenare e scivolarono lungo rotaie invisibili verso la palude.

Provai il brivido che sento sempre in un momento del genere: la gola mi si serra e il cuore accelera i battiti, pare fermarsi per un istante e mi duole realmente. Ho trascorso gran parte della vita in regioni remote, osservando la natura; ma il confronto con una simile bellezza tocca sempre nel mio intimo qualcosa che non ho parole per definire. Accanto a me, Izzy era rigida e immobile come statua d’ebano.

Allora iniziarono gli spari. I tre con la doppietta aprirono subito il fuoco e continuarono con la rapidità con cui riuscivano a espellere le cartucce. La carabina a energia tagliò l’aria sopra la palude, col suo sottile raggio di luce viola chiaramente visibile nella bruma mattutina.

Il primo germano reale fu colpito di sicuro da due o tre rose di pallini: si disintegrò in un’esplosione di penne e d’interiora. Il secondo ripiegò le ali e cadde a piombo, ormai privo d’ogni grazia e bellezza. Il terzo scivolò sulla destra, riprese l’assetto appena prima di toccare l’acqua, batté le ali per risalire. Il raggio d’energia lo seguì, tranciando foglie e rami, simile a una falce silenziosa. Gli spari risuonarono di nuovo, ma il germano parve anticiparli: si tuffò verso la palude, virò a destra, puntò dritto sulla foce dell’immissario.

Dritto su Izzy e su di me.

Volava a non più di due metri dall’acqua. Batteva con forza le ali, deciso a sfuggire ai cacciatori. Capii che voleva passare sotto gli alberi e seguire il corso d’acqua. L’insolito schema di volo aveva portato il germano reale fra le posizioni d’appostamento, ma i quattro cacciatori sparavano ancora.

Con la gamba destra spinsi la barca fuori del nascondiglio tra le fronde. — Cessate il fuoco! — gridai, col tono di comando che avevo acquisito nella breve carriera come sergente della Guardia Nazionale. Due smisero di sparare. Un fucile e la carabina a energia continuarono. Senza la minima esitazione il germano reale oltrepassò la barca, un metro alla nostra sinistra.

Izzy tremò in tutto il corpo e spalancò la bocca, come sorpresa che il germano ci sfiorasse a bassa quota. Il fucile non sparò, ma il raggio viola parve fare una panoramica su di noi nella foschia che cominciava a schiarirsi. Lanciai un grido e spinsi Izzy sul fondo della barca, fra i banchi.

Il germano reale lasciò il tunnel di rami di chalma alle nostre spalle e batté le ali per prendere quota. All’improvviso ci fu puzza d’ozono e una linea di fiamma perfettamente retta frustò la poppa della barca. Mi appiattii sul fondo, afferrai per il collare Izzy e la tirai vicino a me.

Il raggio viola mancò d’un millimetro le mie dita chiuse sul collare. Notai un breve lampo di stupore negli occhi di Izzy; poi il Labrador cercò d’appoggiarmi sul petto la testa, come faceva da cucciolo quando aveva qualcosa da farsi perdonare. Nel movimento, la testa e una parte del collo si staccarono dal resto del corpo e caddero con un lieve tonfo. Stringevo ancora il collare; il corpo di Izzy premeva contro il mio, le sue zampe anteriori tremavano ancora contro il mio petto. Poi il sangue m’inondò, sgorgando a fiotti dalle arterie recise di netto; rotolai da parte, scostando il corpo del cane decapitato e scosso dagli spasmi. Il sangue era caldo e sapeva di rame.

Il raggio d’energia frustò di nuovo l’aria, tagliò un grosso ramo di chalma a un metro dalla barca, svanì come se non fosse mai esistito.

Mi alzai a sedere e guardai il signor Herrig. Il grassone si accendeva un sigaro e teneva di traverso sulle ginocchia la carabina a energia. Il fumo del sigaro si mescolava ai riccioli di nebbia che s’alzavano ancora dalla palude.

Scavalcai la bassa fiancata della barca ed entrai in acqua. Il sangue di Izzy turbinava intorno a me, mentre avanzavo a guado verso il signor Herrig.

Vedendomi arrivare, Herrig alzò la carabina e la tenne contro il petto, nella posizione di portat’arm. — Bene — disse, senza togliersi di bocca il sigaro — si decide a recuperare le anatre che ho colpito oppure ha deciso di lasciarle qui a galleggiare finché non marci…