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— Figliolo — cominciò… e a me venne da sorridere, perché il prete pareva più o meno della mia età. — Figliolo… sei pronto per domani?

Mi passò subito la voglia di sorridere. Scrollai le spalle.

Padre Tse si mordicchiò il labbro. — Non hai accettato Nostro Signore… — disse, con voce tesa per l’emozione.

Provai l’impulso di scrollare di nuovo le spalle. Dissi invece: — Non ho accettato il crucimorfo, Padre. Potrebbe non essere la stessa cosa.

Mi fissò con occhi insistenti, quasi supplichevoli. — È davvero la stessa cosa, figliolo! Nostro Signore l’ha rivelato.

Rimasi in silenzio.

Padre Tse posò il breviario e mi toccò i polsi legati. — Se ti penti stasera e accetti Gesù Cristo come tuo personale Salvatore, dopo tre giorni da… da domani… risorgerai per vivere di nuovo nella grazia del perdono di Nostro Signore — disse. Mi fissò senza battere ciglio. — Lo sai, vero, figliolo?

Ricambiai lo sguardo. Un detenuto nel vicino blocco di celle aveva urlato per gran parte delle ultime tre notti. Mi sentivo stanchissimo. — Sì, Padre — risposi. — So come agisce il crucimorfo.

Padre Tse scosse con vigore la testa. — Non il crucimorfo, figliolo. La grazia di Nostro Signore.

Annuii. — Lei, Padre, ha affrontato la risurrezione?

Il prete abbassò gli occhi. — Non ancora, figliolo. Ma non ho paura di quel giorno. — Tornò a guardarmi in viso. — Neanche tu devi avere paura.

Chiusi gli occhi per un attimo. Negli ultimi sei giorni avevo pensato proprio a quello, quasi in continuazione. — Senta, Padre — replicai — non voglio ferire i suoi sentimenti, ma qualche anno fa ho deciso di non accettare il crucimorfo e non mi pare che questo sia il momento giusto per cambiare idea.

Padre Tse si sporse, con occhi che risplendevano. — Qualsiasi momento è quello giusto per accettare Nostro Signore, figliolo. Domani, dopo il sorgere del sole, non ci sarà più tempo. Il tuo corpo privo di vita sarà portato fuori di qui e gettato in mare, semplice cibo per i pesci che si cibano di carogne, al largo della baia…

Per me non era un’immagine nuova. — Sì — dissi — so qual è la pena per un assassino messo a morte senza che si converta. Ma ho quest’affare… — Toccai il persuasore corticale, ora stabilmente incollato alla tempia. — Non è necessario un simbionte crucimorfo incastonato nel petto, per rendermi più schiavo.

Padre Tse si ritrasse come se l’avessi schiaffeggiato. — Il semplice impegno di una vita dedicata a Nostro Signore non è schiavitù — replicò, gelido, tanto in collera da non balbettare neppure. — Milioni di persone si sono spontaneamente impegnati, prima ancora che fosse loro offerto il tangibile dono celeste dell’immediata risurrezione. Ora miliardi di persone accettano con gratitudine questo dono. — Si alzò. — Hai la possibilità di scelta, figliolo. Eterna luce, con il dono di una vita quasi illimitata in questo mondo dove servire Cristo, o le tenebre eterne.

Mi strinsi nelle spalle e guardai dall’altra parte.

Padre Tse mi benedisse, mi salutò con un misto di tristezza e di disprezzo, si girò, chiamò le guardie e se ne andò. Dopo un minuto sentii nel cranio una fitta di dolore: le guardie avevano stuzzicato il persuasore corticale per riaccompagnarmi in cella.

Non vi annoierò con la lunga litania dei pensieri che si rincorsero nella mia mente in quella notte d’autunno per me eterna. Amavo la vita, con una passione che a volte mi cacciava nei guai… anche se mai erano stati guai seri come stavolta. Per le prime ore di quell’ultima notte meditai la fuga, come un animale in gabbia ha il dovere d’artigliare le sbarre. La prigione era situata in cima allo strapiombo sulla scogliera chiamata Mandibola, molto al largo della baia Toschahi. Lì tutto era perspex infrangibile, rigido acciaio o plastica senza giunzioni. Le guardie erano armate di neuroverga e davano la sensazione di non essere riluttanti a usarla. Anche se fossi riuscito a evadere, un semplice tocco sul telecomando del persuasore corticale mi avrebbe provocato la peggiore emicrania del mondo e come un radiofaro avrebbe guidato le guardie al mio nascondiglio.

Nelle ultime ore meditai sulla follia della mia breve, inutile vita. Non rimpiangevo niente, ma avevo anche poco da mostrare a favore dei ventisette anni di vita di Raul Endymion su Hyperion. Pareva che il tema dominante della mia esistenza fosse la perversa cocciutaggine, quella stessa che m’aveva portato a rifiutare la risurrezione.

"Allora prometti alla Chiesa una vita di servizio" mi bisbigliò una vocina in fondo alla mente. "Così almeno avrai una vita! E altre vite, dopo quella! Come puoi rifiutare un simile affare? Qualsiasi cosa è meglio della vera morte… il tuo cadavere imputridito in pasto alle ampreole, ai celacanti e ai vermisquali. Pensaci!" Chiusi gli occhi e finsi di dormire, solo per sottrarmi alle grida che mi echeggiavano nella mente.

La notte durò un’eternità, ma l’alba parve giungere comunque troppo presto. Quattro guardie mi accompagnarono nella cella della morte, mi legarono con cinghie a una sedia di legno, chiusero la porta d’acciaio. Se guardavo da sopra la spalla sinistra, vedevo le facce che mi scrutavano dalle finestrelle di perspex. Per chissà quale motivo m’ero aspettato un prete (forse non di nuovo padre Tse, ma comunque un prete, un rappresentante della Pax) che mi offrisse l’ultima occasione d’afferrare al volo l’immortalità. Non c’era nessun prete. Solo una parte di me fu contenta. Oggi non posso dire se avrei o no cambiato idea all’ultimo momento.

Il metodo dell’esecuzione capitale era semplice e meccanico… non ingegnoso come una scatola da gatto di Schrödinger, ma comunque ben studiato. Una neuroverga a breve raggio era posta nella parete, puntata contro la sedia che occupavo. Vedevo la spia rossa lampeggiare sul piccolo comlog collegato all’arma. I detenuti delle celle vicino alla mia mi avevano allegramente descritto la meccanica dell’esecuzione, ancora prima che fosse pronunciata la sentenza. Il computer del comlog aveva un programma per generare una serie casuale di numeri. Quando il numero così generato era primo e inferiore a diciassette, la neuroverga entrava in azione. Ogni sinapsi della massa grigiastra che era la personalità e i ricordi di Raul Endymion sarebbe stata fusa. Distrutta. Ridotta all’equivalente neuronico delle scorie radioattive. Nel giro di qualche millisecondo, le funzioni autonome sarebbero cessate. Cuore e polmoni si sarebbero fermati in pratica nello stesso istante della distruzione del cervello. Gli esperti dicono che la morte per neuroverga è la più indolore mai escogitata. Chi risuscitava dopo l’esecuzione, in genere non aveva voglia di parlare dell’esperienza, ma nelle celle correva voce che la neuroverga facesse un male d’inferno… come se la vittima sentisse esplodere ogni circuito del proprio cervello.

Guardai la spia rossa del comlog e la bocca della neuroverga. Qualche bello spirito vi aveva collegato un piccolo schermo a cristalli liquidi perché vedessi i numeri generati. Balenavano come i numeri dei piani di un ascensore per l’inferno: 26 — 74 -109 -19 — 37 (il programma del comlog generava solo numeri inferiori a 150) 77 — 42 -12 — 60 — 84 -129 — 108 — 14…

Allora saltai di testa. Strinsi i pugni, feci forza contro le cinghie di plastica rigida, urlai oscenità alle pareti, alle facce livide e distorte dal perspex delle finestrelle, alla fottuta Chiesa e alla sua fottuta Pax, al fottuto vigliacco che mi aveva ucciso il cane, ai fottutissimi vigliacchi che…

Non vidi comparire sullo schermo il piccolo numero primo. Non udii il lieve ronzio della neuroverga nel momento in cui il raggio entrava in funzione. Però sentii qualcosa, una sorta di gelo venefico che iniziava alla base del cranio e si diffondeva in tutto il corpo, con la velocità della conduzione nervosa, e mi stupii di provare sensazioni. "Gli esperti si sbagliano e i carcerati hanno ragione" pensai selvaggiamente. "La senti, eccome, la morte per neuroverga." Mi sarei messo a ridere come un idiota, se il torpore non m’avesse travolto come un’onda.