— La libertà mi è giunta con la possibilità di partecipare a questo viaggio — disse piano l’androide. Sorrise. — E poi, signor Endymion, se volessi rimanere su Vettore Rinascimento, difficilmente potrei confondermi con la gente.
La battuta sollevò un argomento sul quale avevo cominciato a riflettere. — Potresti cambiare il colore della pelle — dissi. — Il robo-chirurgo della nave potrebbe farlo… — Lasciai perdere di nuovo; avevo notato nella sua espressione un sottile mutamento che non riuscivo a spiegarmi.
— Come lei sa, signor Endymion — cominciò A. Bettik — noi androidi non siamo programmati come macchine… non abbiamo neppure i basilari parametri e gli asimotivatori delle prime Intelligenze Artificiali DNA che si evolsero nelle intelligenze del Nucleo. Però è vero che alcune inibizioni furono… ah… fortemente impresse in noi, al momento di progettare i nostri istinti. Una, ovviamente, riguarda l’ubbidienza agli esseri umani ogni qual volta sia ragionevole e la loro salvaguardia. Questo asimotivatore, per quanto ne so, è più antico della robotica e della bioingegneria. Ma un altro… istinto… m’impedisce di cambiare il colore della pelle.
— Non puoi cambiarlo? Non potresti cambiarlo nemmeno se la nostra vita dipendesse dal fatto che tu nasconda la tua pelle azzurra?
— Oh, sì, ho anch’io il libero arbitrio — disse A. Bettik. — Potrei farlo, soprattutto se l’azione fosse in armonia con asimotivazioni di massima priorità, come salvaguardare lei e la signorina Aenea; ma la decisione mi… metterebbe a disagio. Molto a disagio.
Annuii, ma in realtà non lo capivo appieno. Parlammo di altre cose.
In quello stesso giorno feci l’inventario del contenuto degli armadi per le armi e per le attrezzature d’attività extraveicolare, posti nel ponte principale. C’era più di quanto non avessi pensato durante la prima ispezione, ma alcuni oggetti erano così antiquati che fui costretto a domandare alla nave a che cosa servissero. Le attrezzature nell’armadio AEV erano abbastanza ovvie: tute spaziali e tute per atmosfere a rischio, quattro aerociclette ben piegate nelle nicchie di magazzinaggio sotto l’armadio delle tute, robuste lampade a mano, attrezzatura da campeggio, maschere osmotiche e autorespiratori subacquei con pinne e fucili, una cintura a propulsione EM, tre cassette di utensili, due medipac ben attrezzati, sei serie di occhiali a visione notturna e a raggi infrarossi, un numero uguale di cuffie leggere con ricetrasmettitori a goccia e videocamera, e vari comlog. I comlog m’indussero a chiedere spiegazioni alla nave: in un mondo senza sfera dati, come quello dov’ero cresciuto, non se ne faceva molto uso. I comlog andavano dal tipo antiquato (la sottile banda d’argento tipo bigiotteria che era molto in voga vari decenni fa) a quello antidiluviano: massicci congegni formato piccolo libro. Tutti potevano essere usati come ricetrasmettitori, potevano immagazzinare una grande quantità di dati, accedere alla locale sfera dati e, soprattutto i più vecchi, agganciarsi tramite telecomando ai relè astrotel planetari, in modo da avere accesso alla megasfera.
Soppesai uno dei braccialetti. Non arrivava a un grammo. Ed era del tutto inutile. Sapevo, dai discorsi dei cacciatori giunti da altri pianeti, che alcuni mondi avevano di nuovo una primitiva sfera dati (Vettore Rinascimento era uno di essi, pensavo) ma i relè astrotel erano inutili da almeno tre secoli. L’astrotel, la banda comune di trasmissione FTL, cioè a velocità superiore a quella della luce, dalla quale a suo tempo l’Egemonia dipendeva, taceva fin dalla Caduta. Rimisi il comlog nel suo astuccio foderato di velluto.
«Potrebbe esserle utile portarlo con sé, nel caso dovesse lasciarmi per qualche tempo» disse la nave.
Istintivamente mi guardai alle spalle. — Perché? — domandai poi.
«Dati» rispose la nave. «Potrei scaricare il mio archivio base in uno, o più, di quelli. E lei vi accederebbe a piacimento.»
Mi mordicchiai il labbro e cercai d’immaginare a cosa potesse servirmi avere al polso la confusa massa di dati della nave. Poi mi tornarono in mente le parole di Nonna: La conoscenza va sempre tenuta da conto, Raul. Nel tentativo di capire l’universo è seconda solo all’amore e all’onestà.
— Buona idea — dissi, agganciandomi al polso il sottile nastro d’argento. — Quando puoi scaricare le tue banche dati?
«L’ho appena fatto» rispose la nave.
Prima d’arrivare nel sistema di Parvati, avevo passato attentamente in rassegna il contenuto dell’armadio delle armi: non c’era niente che avrebbe rallentato d’un secondo una Guardia Svizzera. Ora esaminai meglio il contenuto dell’armadio, tenendo in mente scopi diversi.
È strano come le vecchie cose sembrino vecchie. Le tute spaziali, le aerociclette, le lampade a mano… quasi tutto, a bordo della nave, pareva antiquato, fuori moda. Non c’erano dermotute, per esempio; e le dimensioni, la concezione tecnica e il colore di ogni oggetto parevano tolti di peso da un libro di storia. Ma le armi erano una faccenda un po’ diversa. Erano vecchie, certo, ma ben note al mio occhio e alla mia mano.
Era evidente che il Console era stato un cacciatore: in una rastrelliera c’erano sei doppiette, ben oliate e conservate secondo le regole. Avrei potuto prenderne una a caso, andare in palude e riempire d’anatre il carniere. I modelli variavano, da un piccolo .310 a canne sovrapposte a una massiccia doppietta cal. 16. Scelsi un antico, ma perfettamente conservato, cal. 16 a pompa con vere e proprie cartucce e lo misi da parte nel corridoio.
Le carabine e le armi a energia erano molto belle. Di sicuro il Console era stato un collezionista, perché quegli esemplari erano opere d’arte, oltre che strumenti per uccidere: intarsi nel calcio, acciaio brunito, impugnatura anatomica, equilibrio perfetto. Nel millennio e passa che ci separava dal XX secolo, quando le armi individuali erano prodotte in serie ed erano incredibilmente micidiali, poco costose e brutte come fermaporte metallici, alcuni di noi (io e il Console, fra quei pochi) avevamo imparato a dar valore alle belle armi da fuoco fabbricate a mano o prodotte in serie limitata. Nella rastrelliera c’erano fucili da caccia di grosso calibro, carabine al plasma (non è un termine improprio, come avevo imparato durante l’addestramento nella Guardia Nazionale: quando usciva dalla bocca da fuoco, il proiettile era ovviamente una scarica di pura energia, ma beneficiava della rigatura della canna), due carabine dal calcio riccamente intagliato, a energia laser (questo sì che era un termine improprio, un manufatto linguistico, più che progettuale) non molto diverse da quella con cui il signor Herrig aveva ammazzato la mia Izzy, un fucile d’assalto nero opaco della FORCE simile a quello che il colonnello Fedmahn Kassad aveva portato su Hyperion tre secoli fa, un’arma al plasma di calibro gigante che di certo il Console aveva usato per cacciare dinosauri su chissà quale pianeta, e tre pistole. Non c’erano neuroverghe. Ne fui contento: li odiavo, quei maledetti aggeggi.
Tolsi dalla rastrelliera una carabina al plasma, il fucile d’assalto della FORCE e le pistole, per esaminarli più accuratamente.
Il fucile della FORCE era brutto, faceva a pugni con i criteri che avevano ispirato la collezione del Console; ma capii perché vi era stato compreso. Era un ordigno multiuso: carabina al plasma da 18 mm., arma a energia coerente a raggio variabile, lanciagranate, schermo protettivo reae (raggi d’elettroni ad alta energia), lancia-fléchettes, accecatore a banda ampia, lancia-dardi a ricerca di fonte di calore-diavolo, un fucile d’assalto della FORCE farebbe qualsiasi cosa, tranne che cucinare il rancio del soldato. (Ma, sul campo, il raggio variabile, tenuto al minimo, di solito fa anche questo.)
Prima d’entrare nel sistema di Parvati, avevo accarezzato l’idea di accogliere con il fucile della FORCE le Guardie Svizzere all’abbordaggio, ma le moderne tute da combattimento si sarebbero fatte gioco di qualsiasi cosa quel fucile potesse scagliare; e poi, a essere onesti, avevo temuto che una simile accoglienza facesse inferocire i soldati della Pax.