— Maledizione — mormora il capitano Wu.
— Signori — dice il pilota Karyn Cook — La nave ha interrotto la discesa. Rimane librata duemila metri sopra lo spazioporto.
— Lo vediamo, tenente — sbotta de Soya. Le luci, rossa e verde, della nave lampeggiano. I fari d’atterraggio nelle pinne caudali sono tanto vividi da illuminare il tarmac dello spazioporto, due chilometri più in basso. Gli altri velivoli nello spazioporto sono al buio; molti sono stati ritirati negli hangar o in piste di sosta secondarie. I velivoli che girano intorno alla nave, navetta compresa, non hanno luci. De Soya parla sul canale multiplo. «A tutte le navi, mantenere la distanza e non aprire il fuoco.»
«Nave non identificata» dice il controllore della Pax «state uscendo dal corridoio. Riprendete subito la velocità di discesa nominale, prego. Nave non identificata, state lasciando lo spazio aereo controllato. Riprendete subito la discesa prevista…»
— Merda — mormora Barnes-Avne. I suoi soldati aspettano, schierati in cerchi concentrici intorno allo spazioporto, ma la nave della bambina non è più sopra lo spazioporto: va alla deriva sopra il centro di Da Vinci. Ora ha spento i fari d’atterraggio.
— La nave non dà segno di voler accendere il motore a fusione — dice de Soya al capitano Wu. — Sfrutta solo i repulsori.
Wu annuisce, ma chiaramente non è soddisfatta. Una nave con motore a fusione librata sopra un centro urbano è come una lama di ghigliottina sopra un collo indifeso.
«PAC» chiama de Soya «mi sposto nel raggio di cinquecento metri. State vicino a me, prego.» Rivolge un gesto al pilota, che muove la navetta verso il basso in una planata intorno alla nave; pare un uccello da preda. Gregorius e gli altri due soldati, in armatura da combattimento, siedono rigidamente sui sedili posteriori.
— Cosa diavolo combina? — mormora il comandante Barnes-Avne. Sulla banda tattica de Soya vede che la donna ha ordinato a un centinaio di soldati di seguire, con i monopropulsori a reazione, la nave. I soldati sono invisibili alle telecamere esterne.
De Soya ricorda il piccolo velivolo, o zaino di volo, che ha prelevato la bambina nella Valle delle Tombe del Tempo. Si collega con il controllo a terra e con le vedette orbitali. «Sensori? State controllando che piccoli oggetti non lascino la nave bersaglio?»
La risposta proviene dalla vedetta primaria. «Sissignore. Non si preoccupi, signore. Neppure un microbo potrebbe uscire da quella nave senza lasciare traccia, signore.»
«Molto bene» dice de Soya. "Che cosa ho dimenticato?" si domanda. La nave di Aenea continua a librarsi lentamente sopra Da Vinci, direzione nord-nordovest, a circa venticinque chilometri all’ora: un lento dirigibile verticale portato dal vento. Al di sopra della nave turbinano i caccia penetrati nell’atmosfera insieme con la navetta di de Soya. Intorno alla nave, simili alle pareti di un ciclone in rotazione intorno all’occhio, turbinano gli Scorpioni della Pattuglia Aerea. Sotto la nave, sfiorando gli edifici e i ponti della città, i marines dello spazioporto e i soldati seguono il bersaglio basandosi sui sensori a infrarossi del visore della tuta e sui dati di rilevamento.
La nave della bambina si libra su silenziosi repulsori EM sopra i grattacieli e le zone industriali di Da Vinci. La città risplende di luci: autostrade, edifici, verdi distese di campi da gioco, rettangoli vividamente illuminati delle aree di parcheggio. Decine di migliaia di veicoli terrestri strisciano sui nastri d’autostrade sopraelevate e i loro fari incrementano lo spettacolo luminoso della città.
— La nave si gira, signore — riferisce il pilota. — Sempre sui repulsori.
Tanto sui video quanto sulla banda tattica de Soya vede la nave di Aenea assumere lentamente la posizione orizzontale. Non compaiono ali. Quella posizione sarebbe insolita per i passeggeri, ma in pratica non fa differenza: i campi interni controllano ancora "alto" e "basso". La nave, più che mai simile a un argenteo dirigibile sospinto dal vento, si muove sopra il fiume e i depositi ferroviari della parte nordovest di Da Vinci. Il controllo del traffico chiede con insistenza una risposta, ma i canali di trasmissione rimangono muti.
"Che cosa ho dimenticato?" si domanda il Padre Capitano de Soya.
Quando Aenea chiese alla nave di girarsi in posizione orizzontale, confesso che per un istante perdetti quasi la calma.
Fui quasi sopraffatto dalla sensazione di cadere. In quel momento eravamo tutt’e tre vicino al bordo della stanza circolare e grazie allo scafo trasparente guardavamo in basso, come dall’orlo di un precipizio. Ora ci rovesciavamo verso quelle luci mille metri più in basso. A. Bettik e io arretrammo istintivamente di alcuni passi verso il centro della stanza (io agitai davvero le braccia, come per mantenere l’equilibrio), ma Aenea rimase sul bordo della stanza e osservò il terreno inclinarsi verso di lei e diventare una muraglia di edifici e di luci.
Provai l’impulso di sedermi sul divano, ma riuscii a restare in piedi e a controllare la sensazione di vertigine, immaginando che il terreno fosse una gigantesca muraglia da sorvolare. Mentre avanzavamo, le vie e la griglia di edifici passavano sotto di noi. Feci un giro completo su me stesso, scorgendo le poche stelle più luminose attraverso il bagliore della città alle mie spalle. Le nuvole riflettevano le. luci arancione del complesso urbano.
— Cosa cerchiamo? — domandai. A intervalli la nave riferiva la presenza di velivoli che ci giravano intorno e il numero dei sensori che ci tenevano sotto controllo. Le avevamo ordinato di non badare alle insistenti richieste del controllore del traffico dello spazioporto.
Aenea voleva guardare il fiume. Ora lo sorvolavamo: un nastro scuro, sinuoso, che serpeggiava fra le luci della città. Costeggiammo il fiume, verso nordovest. Di tanto in tanto sotto di noi passava una chiatta o un battello di piacere, ma dal nostro punto di vista le luci parevano strisciare su o giù lungo la muraglia di edifici.
Invece di rispondere alla mia domanda, Aenea disse: — Nave, sei sicura che quello faceva parte del Teti?
«Sì, secondo le mie mappe» confermò la nave. «Ovviamente la mia memoria non…»
— Là! — esclamò A. Bettik, indicando un punto proprio sopra la linea scura del fiume.
Non scorsi niente, ma di sicuro Aenea vide qualcosa. — Abbassiamoci — ordinò alla nave. — Rapidamente.
«Abbiamo già superato i margini di sicurezza» obiettò la nave. «Se perdiamo ancora la quota, potremmo…»
— Esegui l’ordine! — gridò la bambina. — Prendo il comando manuale. Codice "Preludio… Do diesis". Esegui!
La nave si mosse di scatto in basso e in avanti.
— Punta verso quell’arco — ordinò Aenea, indicando un punto sulla verticale lungo la muraglia della città e del fiume.
— Arco? — dissi, stupito. Poi lo vidi… una corda nera, un arco di tenebra contro le luci della città.
A. Bettik guardò la bambina. — Quasi m’aspettavo che fosse svanito… abbattuto.
Aenea sorrise. — Non possono abbatterlo. Bisognerebbe usare esplosivi atomici… e forse non basterebbero neppure. Il TecnoNucleo ha provveduto a farli costruire… perché durassero.
Ora la nave procedeva a grande velocità sui propulsori. Vedevo chiaramente l’arcata del teleporter, simile a un gigantesco occhiello sopra il fiume. Un parco industriale era cresciuto intorno all’antico manufatto: i depositi ferroviari e i cortili di magazzinaggio erano deserti, a parte il cemento screpolato, le erbacce, i cavi arrugginiti e le carcasse di macchinari abbandonati. Il teleporter distava ancora un chilometro. Attraverso il portale scorgevo le luci della città… no, ora il portale pareva tremolare un poco, come se dall’arcata metallica cadesse un velo d’acqua.