De Soya, sempre irrigidito sull’attenti, batte varie volte le palpebre, incredulo. Poi dice: — Capitano?
— Sì, Padre Capitano? — risponde Wu.
— Significa che posso tenere come guardie del corpo il sergente Gregorius e i suoi due uomini?
Il capitano Wu (la cui autorità, stranamente, sovrasta quella di ammiragli e di comandanti delle forze planetarie intorno al tavolo) sorride. — Padre Capitano, se volesse, potrebbe ordinare ai componenti di questa commissione di seguirla come guardie del corpo. L’autorità conferitale dal diskey papale rimane assoluta.
De Soya non sorride. — Grazie, capitano… signori. Il sergente Gregorius e i suoi due uomini basteranno. Partirò questa mattina.
— Per dove, Federico? — domanda padre Brown. — Come sa, esaurienti ricerche negli archivi non hanno dato indicazioni sul luogo dove il teleporter potrebbe avere trasferito quella nave. Il fiume Teti aveva connessioni interscambiabili e ogni dato sul mondo seguente nella fila per noi è evidentemente perduto.
— Sì, Padre — risponde de Soya. — Ma i mondi che un tempo erano toccati da quel fiume via teleporter sono solo poco più di duecento. La nave della bambina si trova su uno di essi. La mia Arcangelo può raggiungerli tutti in meno di due anni, calcolando anche il tempo per la risurrezione dopo ogni balzo. Comincerò immediatamente.
A queste parole i componenti la commissione possono solo fissare de Soya. Quell’uomo affronterà per centinaia di volte la morte e una difficile risurrezione. Nessuno, da quando è stato introdotto il Sacramento della Risurrezione, è mai stato sottoposto a un simile ciclo di sofferenza e di rinascita.
Padre Brown si alza e muove la mano nel gesto della benedizione. — In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti — intona. — Vada con Dio, Padre Capitano de Soya. Le nostre preghiere l’accompagneranno.
29
Quando ci colpirono, a varie centinaia di metri dal teleporter, fui sicuro che stavolta saremmo morti. Il campo di contenimento interno svanì nell’istante in cui i generatori furono colpiti, la muraglia di pianeta che guardavamo in alto si trovò improvvisamente e innegabilmente in basso e la nave cadde come un ascensore al quale avessero tagliato i cavi.
Mi riesce difficile descrivere le sensazioni che seguirono. Ora so che al posto dei campi interni entrò in funzione quello che è conosciuto come "campo d’urto" (nome davvero azzeccato, vi assicuro) e per i primi minuti mi sentii come se m’avessero infilato in un’enorme vasca di gelatina. In un certo senso, era proprio così. Il campo d’urto si dilatò in un nanosecondo e riempì ogni millimetro quadrato della nave, proteggendoci e mantenendoci assolutamente immobili mentre la nave spaziale si tuffava nel fiume, rimbalzava sul fondo fangoso, accendeva il motore a fusione creando un gigantesco pennacchio di vapore, proseguiva la corsa tra fango, vapore, acqua e detriti delle rive in implosione e infine eseguiva l’ultimo ordine: varcava l’arcata del teleporter. Il fatto che ci trovassimo sotto tre metri d’acqua ribollente non impedì al portale di funzionare. Più tardi la nave ci disse che, mentre la prua attraversava il portale, l’acqua più avanti e più indietro divenne all’improvviso vapore surriscaldato, come se una nave o un velivolo della Pax l’avessero colpita con un raggio al plasma. Ironicamente, fu il vapore stesso a deviare il raggio per i millisecondi necessari alla nave per completare l’attraversamento.
Nel frattempo, all’oscuro di questi particolari, rimasi a guardare. Avevo gli occhi aperti (non potevo chiuderli a causa della forza appiccicosa del campo d’urto) e guardavo dai monitor video posti lungo i piedi del letto e dalla punta dello scafo ancora trasparente, mentre il teleporter baluginava entrando in funzione e la luce del sole si riversava sul fiume, finché all’improvviso non fummo al di là della nube di vapore e sbattemmo di nuovo contro il fondo roccioso del fiume, urtando infine una spiaggia sotto un cielo azzurro e sotto il sole.
Allora i monitor si spensero e lo scafo divenne opaco. Per parecchi minuti restammo intrappolati in quell’oscurità da caverna, dove galleggiavo a mezz’aria, o avrei galleggiato, se non fossi stato bloccato dal gelatinoso campo d’urto. Ero a braccia larghe, la gamba destra piegata all’indietro nella posizione di chi corre, la bocca spalancata in un urlo muto e non potevo battere le palpebre. Sulle prime la paura di soffocare fu fortissima (il campo d’urto mi riempiva la bocca spalancata) ma presto mi resi conto che naso e gola ricevevano ossigeno. Il campo d’urto funzionava come le costose maschere osmotiche adoperate all’epoca dell’Egemonia per le immersioni marine a grande profondità: l’aria filtrava attraverso la massa del campo che premeva contro il viso e la gola. Non fu un’esperienza piacevole (ho sempre odiato l’idea di soffocare) ma sopportabile. Più sconvolgente fu l’oscurità e il senso di claustrofobia: avevo l’impressione d’essere invischiato in una gigantesca ragnatela. Durante quei minuti nel buio, pensai che la nave sarebbe rimasta lì per sempre, inutilizzabile, impossibilitata a spegnere il campo d’urto, e che noi tre saremmo morti di fame in quelle così poco dignitose posizioni, finché un giorno l’energia della nave si sarebbe esaurita, il campo d’urto sarebbe svanito e i nostri scheletri imbiancati sarebbero caduti con un acciottolio, rimbalzando nello scafo come ossicini lanciati da un’invisibile indovina.
Comunque, meno di cinque minuti dopo, il campo si eliminò lentamente. Le luci si accesero, tremolarono, furono sostituite dalle luci rosse d’emergenza, mentre noi venivamo gentilmente calati su quella che poco prima era stata la parete. Lo scafo divenne di nuovo trasparente, ma ben poca luce riuscì a penetrare tra il fango e i detriti.
Dalla mia posizione non ero riuscito a vedere A. Bettik e Aenea (si trovavano fuori del mio campo visivo bloccato) ma ora li vidi, mentre il campo li calava con me sullo scafo. Con sorpresa udii un urlo scaturirmi dalla gola e capii che era lo stesso urlo che avevo cercato d’emettere nell’attimo del disastro.
Per un momento tutt’e tre ci limitammo a stare contro la parete ricurva dello scafo e a massaggiarci braccia, gambe, testa, per assicurarci d’essere ancora interi. Poi Aenea parlò per tutti. — Merda santa! — disse. Si alzò sul pavimento ricurvo. Le tremavano le gambe.
— Nave! — chiamò l’androide.
«Sì, A. Bettik.» La voce aveva la calma di sempre.
— Sei danneggiata?
«Sì, A. Bettik. Ho appena completato l’esatta stima dei danni. Le bobine dei campi, i repulsori e i traslatori Hawking hanno riportato danni estesi, al pari della sezione di scafo di prua e di due delle quattro pinne caudali.»
— Nave — dissi, tirandomi in piedi a fatica e guardando dal muso trasparente della nave: dalla parete ricurva sopra di noi proveniva la luce del sole, ma gran parte dello scafo era opaco per il fango, la sabbia e altri detriti. L’acqua scura del fiume arrivava a due terzi dei fianchi e sciaguattava contro la nave. Pareva che ci fossimo arenati su un banco di sabbia, ma non prima di arare parecchi metri di fondo. — Nave, i tuoi sensori funzionano?
«Solo radar e sensori ottici.»
— Siamo inseguiti? Qualche nave della Pax ha varcato con noi il portale?
«No. Nel raggio del mio radar non ci sono bersagli inorganici a terra o in aria.»
Aenea andò alla parete verticale che era stata il pavimento coperto dal tappeto. — Neppure soldati? — domandò.