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«No» rispose la nave.

— Il teleporter è ancora funzionante? — domandò A. Bettik.

«No. Il portale ha smesso di funzionare diciotto nanosecondi dopo il nostro passaggio.»

Allora mi rilassai un poco e guardai la bambina, per controllare che non fosse ferita. A parte i capelli in disordine e la luce d’entusiasmo negli occhi, pareva normale. Mi sorrise. — Allora, Raul, come usciamo da qui?

Guardai in alto e capii che cosa voleva dire. Il pozzo centrale si trovava circa tre metri sopra la nostra testa. — Nave? — dissi. — Puoi rimettere in funzione i campi interni quanto basta per farci uscire dalla nave?

«Mi spiace» rispose la nave. «I campi sono guasti e ci vorrà del tempo per ripararli.»

— Puoi metamorfosare un’apertura nello scafo sopra di noi? — Sentivo tornare la sensazione di claustrofobia.

«No, purtroppo. Al momento funziono a batteria e non dispongo dell’energia necessaria per metamorfosare. La camera stagna principale però funziona. Se riuscite a raggiungerla, vi apro il portello.»

Ci guardammo. — Magnifico — dissi poi. — Strisciare per trenta metri di nave dove ogni cosa è di traverso!

Aenea guardava ancora il pozzo della scala. — Qui la gravità è diversa… la sentite?

Solo allora me ne resi conto. Ogni cosa pareva più leggera. Forse l’avevo già notato e l’avevo attribuito a una variazione del campo interno… ma il campo interno non c’era più. Eravamo su di un mondo diverso, con gravità diversa! Mi ritrovai a fissare la bambina.

— Vorresti dire che possiamo volare fin lassù? — dissi, indicando il letto imbullonato alla "parete" e il pozzo della scala lì vicino.

— No, ma qui la gravità sembra inferiore a quella di Hyperion. Voi due mi lanciate lassù, io vi getto qualcosa e poi strisciamo fino alla camera stagna.

Andò proprio così. A. Bettik e io unimmo le mani, formammo una staffa, sollevammo Aenea fino al bordo del pozzo della scala, dove lei rimase in equilibrio, allungò la mano, tirò via dal letto la coperta penzolante, la legò alla ringhiera e lasciò cadere l’estremità verso di noi; A. Bettik e io ci tirammo su e tutt’e tre camminammo in precario equilibrio sul palo centrale del pozzo, reggendoci alla scala a chiocciola di lato e sopra di noi per mantenere l’equilibrio; a poco a poco avanzammo nella confusione illuminata di rosso… attraverso la biblioteca dove libri e cuscini erano caduti nella parte inferiore dello scafo nonostante le corde di ritegno negli scaffali, attraverso l’area della piazzola olografica dove lo Steinway era ancora al suo posto grazie ai bulloni di fissaggio ma dove i nostri bagagli erano rotolati in fondo alla nave. Qui facemmo una sosta, mentre mi calavo sul fondo dello scafo ingombro di roba per recuperare lo zaino e le armi lasciate sul divano. Mi agganciai alla cintura la rivoltella, lanciai agli altri la fune presa dallo zaino e mi sentii un po’ più pronto ad affrontare gli eventi.

Giunti nel corridoio, vedemmo che ciò che aveva danneggiato la zona motori più in basso aveva anche seminato il disordine negli armadi: alcuni tratti del corridoio erano anneriti e gonfiati verso l’esterno, il contenuto degli armadi era sparpagliato lungo le paratie lacerate. Il portello interno della camera stagna era aperto, ma ora si trovava alcuni metri sopra di noi. Fui costretto ad arrampicarmi nell’ultimo tratto verticale di corridoio e a lanciare la corda agli altri, restandomene acquattato sulla soglia del portello interno. Poi saltai sullo scafo esterno e mi tirai fuori, nella vivida luce del sole; infilai la mano nella camera stagna illuminata di luce rossa, trovai il polso di Aenea e tirai fuori la bambina. Un secondo dopo, feci la stessa cosa con A. Bettik. Solo allora ci guardammo intorno.

Un bizzarro mondo nuovo! Non riuscirò mai a descrivere il brivido d’eccitazione che mi percorse in quel momento: nonostante il disastro, nonostante la difficile situazione, nonostante tutto, in quel momento guardavo un mondo nuovo! L’effetto su di me fu molto più intenso di quanto non mi fossi aspettato in previsione di un viaggio interstellare. Il pianeta era molto simile a Hyperion: aria respirabile, cielo azzurro (anche se di una tonalità molto più chiara del lapislazzuli di Hyperion) riccioli di nuvole, il fiume dietro di noi (più ampio di quanto non fosse su Vettore Rinascimento) e sulle rive la giungla, estesa a perdita d’occhio sulla destra, interrotta dal portale coperto di rampicanti sulla sinistra. Davanti a noi, la prua della nave aveva davvero arato il fondo del fiume e si era arenata su di una lingua di sabbia; da lì la giungla ricominciava e ricopriva ogni cosa, simile a un verde e sbrindellato sipario su di uno stretto palcoscenico.

Ma per quanto la descrizione possa suonare familiare, tutto era bizzarro: gli odori nell’aria erano insoliti, la gravità pareva strana, la luce del sole era un po’ troppo vivida, gli "alberi" della giungla non somigliavano a niente che avessi visto (gimnosperme dalle foglie piumate, li avrei descritti in quel momento) e in alto stormi di fragili uccelli bianchi, di un tipo per me nuovo, agitavano le ali per volare via al rumore del nostro goffo ingresso in quel mondo.

Risalimmo a piedi lo scafo verso la spiaggia. La brezza arruffava i capelli di Aenea e mi gonfiava la camicia. L’aria portava pungenti aromi di spezie… tracce di cinnamomo e di timo, forse… ma più delicati e più intensi. Dall’esterno la prua della nave non era trasparente, ma a quel tempo non sapevo se la nave aveva reso di nuovo opaca la propria pelle oppure se dall’esterno non era mai trasparente. Anche rovesciato sul fianco, lo scafo era troppo alto e troppo ripido per consentirci di scendere scivoloni, ma per fortuna aveva scavato un profondo solco nella sabbia della spiaggia; sfruttai di nuovo la fune per calare a terra A. Bettik, poi calai Aenea e infine mi misi in spalla lo zaino (sormontato dalla carabina al plasma, ripiegata) e mi lasciai scivolare lungo lo scafo; rotolai sulla sabbia compatta per attutire il colpo.

I miei primi passi sopra un pianeta straniero… non furono passi, ma una bocca piena di sabbia.

Aenea e l’androide mi aiutarono a rialzarmi. Aenea scrutò lo scafo. — Come faremo a risalire? — domandò.

— Possiamo costruire una scala a pioli, trascinare fin qui un albero caduto, oppure — diedi un colpetto allo zaino — usare il tappeto hawking.

Rivolgemmo l’attenzione alla spiaggia e alla giungla. La spiaggia era stretta (solo alcuni metri, dalla prua della nave alla foresta) e formata di sabbia dai riflessi rossastri nella vivida luce del sole; la giungla era fitta e buia. Sulla spiaggia la brezza era fresca, ma sotto i fitti alberi il calore era palpabile. Venti metri più in alto le fronde delle gimnosperme frusciavano e ondeggiavano come antenne d’enormi insetti.

— Aspettate qui un minuto — dissi. Entrai al riparo degli alberi. Il sottobosco era fitto, costituito in massima parte di un tipo di felce rampicante, e il terreno era spugnoso per la notevole quantità di humus. La giungla odorava di umido e di marcio, ma l’odore era completamente diverso da quello delle paludi e degli acquitrini di Hyperion. Pensai agli acari-dracula e alle aguglie guerriere del mio piccolo, noioso pezzo di terre selvagge e guardai bene dove mettevo i piedi. Liane scendevano a spirale dai tronchi di gimnosperme e creavano un merletto nodoso davanti a me nella penombra. Capii che avrei dovuto aggiungere un machete al mio equipaggiamento base.

Non avevo percorso dieci metri quando all’improvviso un alto arbusto con grosse foglie rosse, un metro davanti al mio viso, si dissolse in un’esplosione di movimento e le "foglie" volarono via sotto il baldacchino della giungla: le coriacee ali delle creature facevano un rumore molto simile a quello delle grosse volpi volanti portate su Hyperion dalle navi coloniali dei nostri antenati.

— Maledizione — mormorai; a colpi e a spintoni mi aprii la strada per uscire da quell’umido intrico. Quando rimisi piede sulla spiaggia, avevo già la camicia a brandelli. Aenea e A. Bettik mi guardarono con ansia.