— È proprio una giungla — dissi.
Andammo al limitare dell’acqua, ci sedemmo sopra un ceppo parzialmente sommerso e guardammo la nostra nave spaziale. La poveretta pareva una grande balena arenata, come nei documentari sulla fauna selvatica della Vecchia Terra.
— Chissà se tornerà a volare — mormorai, rompendo una tavoletta di cioccolata e offrendone un pezzo alla bambina e all’androide.
«Oh, penso proprio di sì» disse una voce proveniente dal mio polso.
Confesso d’avere fatto un salto di dieci centimetri almeno. Mi ero dimenticato del braccialetto comlog.
— Nave? — dissi, alzando il polso e parlando direttamente nel braccialetto, come avrei fatto se avessi usato una radio portatile della Guardia Nazionale.
«Non è necessario parlare nel comlog» disse la nave. «Ricevo tutto con grande chiarezza, grazie. La domanda era: tornerò a volare? La risposta è: quasi certamente. Ho eseguito riparazioni molto più complesse, dopo l’arrivo nella città di Endymion, al mio ritorno su Hyperion.»
— Bene. Sono contento che tu possa… ah… riparare te stessa. Ti occorrono materiali grezzi? Parti di ricambio?
«No, grazie, signor Endymion. Per la maggior parte dei lavori basta utilizzare materiali esistenti e riprogettare alcune unità danneggiate. Le riparazioni non dovrebbero richiedere molto tempo.»
— Quant’è lungo, non molto tempo? — domandò Aenea. Terminò di mangiare la cioccolata e si leccò le labbra.
«Sei mesi standard» rispose la nave. «Salvo difficoltà impreviste.»
Ci scambiammo un’occhiata. Guardai la giungla. Ora il sole pareva più basso, i suoi raggi illuminavano di sbieco la cima delle gimnosperme e gettavano chiazze buie nella penombra sempre più fitta. — Sei mesi? — dissi.
«Salvo difficoltà impreviste» ripeté la nave.
— Qualche idea? — domandai ai miei due compagni.
Aenea si pulì le dita nel fiume, si spruzzò in viso un po’ d’acqua, si tirò indietro i capelli bagnati. — Siamo sul Teti — disse. — Andiamo a valle fino a trovare il prossimo teleporter.
— Puoi ripetere il trucchetto?
Lei si asciugò alla meglio il viso. — Quale trucchetto?
Gesticolai con noncuranza. — Oh, niente… far funzionare una macchina morta da tre secoli. Quel trucchetto lì.
Divenne seria. — Non ero sicura di poterlo fare, Raul. — Guardò A. Bettik, che ci guardava a sua volta, impassibile. — Giuro.
— Cosa sarebbe accaduto, se non ci fossi riuscita? — domandai, calmo.
— Ci avrebbero catturati — rispose Aenea. — Forse avrebbero lasciato andare voi due. Ma avrebbero portato me su Pacem. E nessuno avrebbe più avuto mie notizie.
Qualcosa, nel tono piatto, privo d’emozione, mi diede i brividi. — E va bene — dissi — ha funzionato. Ma come ci sei riuscita?
Aenea mosse la mano in quel lieve gesto che avrei imparato a conoscere bene. — Non lo so… con certezza — rispose. — Sapevo, dai miei sogni, che probabilmente il portale mi avrebbe lasciata passare…
— Ti avrebbe lasciata passare? — ripetei, stupito.
— Sì. Pensavo che mi avrebbe… riconosciuta. E così è stato.
Posai le mani sulle ginocchia e allungai le gambe, conficcando nella sabbia rossa i tacchi degli stivali. — Parli del teleporter come se fosse un organismo vivo e intelligente.
Aenea lanciò un’occhiata al portale mezzo chilometro più indietro. — In un certo senso, è proprio così. Difficile, spiegarlo.
— Ma sei sicura che i soldati della Pax non possano attraversarlo?
— Oh, certo! Il portale non si attiverà per nessun altro.
Inarcai il sopracciglio. — Allora come mai A. Bettik e io e la nave siamo passati?
Aenea sorrise. — Eravate con me.
Mi alzai. — Va bene, ci torneremo dopo. Per prima cosa occorre un piano. Facciamo subito un sopralluogo o prima prendiamo dalla nave le nostre cose?
Aenea guardò l’acqua scura del fiume. — E poi Robinson Crusoe si spogliò, raggiunse a nuoto la nave, si riempì le tasche di gallette e tornò a riva…
— Cosa? — dissi, alzando lo zaino e guardando la bambina, senza capire.
— Niente — disse lei, tirandosi in piedi. — Solo un vecchio libro pre-Egira che zio Martin soleva leggermi. Diceva sempre che i correttori di bozze sono degli asini incompetenti… anche mille e quattrocento anni fa.
Guardai l’androide. — Tu la capisci, A. Bettik?
L’androide mostrò quella lieve contrazione delle labbra che imparavo a riconoscere come sorriso. — Capire la signorina Aenea non rientra nei miei compiti, signor Endymion.
Sospirai. — Va bene, torniamo a bomba… Facciamo un sopralluogo, prima che scenda la notte, o recuperiamo la nostra roba?
— Voto per il sopralluogo — disse Aenea. Lanciò un’occhiata alla giungla sempre più scura. — Ma non là dentro.
— No — convenni. Tolsi dallo zaino il tappeto hawking e lo srotolai sulla sabbia. — Vediamo se su questo pianeta funziona. — Esitai, alzai il comlog. — Nave, come si chiama questo pianeta?
Seguì un secondo d’esitazione, come se la nave fosse occupata a rimuginare i suoi problemi. «Mi spiace, non posso stabilire quale pianeta sia, data la condizione dei miei banchi di memoria. I miei sistemi di navigazione potrebbero scoprirlo, naturalmente, ma dovrei vedere le stelle. Posso dirvi però che al momento in questa zona del pianeta non ci sono innaturali trasmissioni elettromagnetiche o microonda. Non ci sono neppure satelliti relè, né altri oggetti fatti dall’uomo, in orbita sincrona su di noi.»
— Va bene — dissi — ma dove siamo? — Guardai la bambina.
— Come potrei saperlo? — disse Aenea.
— Ci hai portati qui! — sbottai. Mi accorsi d’essermi spazientito con lei, ma in quel momento non me la sentivo, di portare pazienza.
Aenea scosse la testa. — Mi sono limitata ad attivare il teleporter, Raul. Il mio piano era semplice: allontanarmi dal Padre Capitano Vattelapesca e da tutte quelle navi. Nient’altro.
— E trovare il tuo architetto.
— Sì — disse Aenea.
Guardai la giungla e il fiume. — Non pare un luogo promettente per trovare un architetto. Immagino che tu abbia ragione… dovremo solo scendere il fiume fino al prossimo mondo. — Mi cadde l’occhio sul portale coperto di rampicanti da poco varcato. In quel momento capii perché ci eravamo arenati: in quel punto il fiume curvava a destra, a circa mezzo chilometro dal portale. La nave aveva mantenuto la direzione ed era finita nell’acqua bassa e poi sulla spiaggia.
— Un momento — dissi. — Non potremmo riprogrammare quel portale e usarlo per andare da un’altra parte? Perché dobbiamo cercarne un altro?
A. Bettik si scostò dalla nave per guardare meglio l’arco del teleporter. — I portali del Teti non funzionavano come i milioni di teleporter personali — disse con calma. — E non erano neppure progettati per funzionare come i portali del Grand Concourse né come i grandi teleporter spaziali. — Prese di tasca un librettino. Vidi il titolo: Guida per la Rete dei Mondi. — A quanto pare — continuò A. Bettik — il Teti fu progettato principalmente per lo svago e il vagabondaggio. La distanza fra i portali variava da qualche chilometro a parecchie centinaia…
— Centinaia di chilometri! — esclamai. M’ero aspettato di trovare il secondo portale al di là della prima curva del fiume.
— Sì — riprese A. Bettik. — L’idea, da quanto ho capito, era di offrire al viaggiatore un’ampia varietà di mondi, panorami, esperienze. A questo scopo si attivavano solo i portali a valle, che si autoprogrammavano secondo uno schema casuale: ossia i tratti di fiume sui diversi mondi erano di continuo mischiati come le carte di un mazzo.