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— Perché il fiume resta liquido? — domandò Aenea, stringendo sotto le ascelle le mani e battendo a terra i piedi. Si era infagottata con tutti i vestiti disponibili, ma non bastava. Il freddo era terribile.

M’inginocchiai sul bordo della zattera, mi portai alle labbra un po’ d’acqua e assaggiai. — Salinità — dissi. — Questo fiume è salato come l’oceano di Mare Infinitum.

A. Bettik illuminò con la torcia la parete di ghiaccio dieci metri più avanti. — Scende fino all’acqua — disse. — E si estende un poco sotto la superficie. Ma il fiume prosegue.

Per un istante ebbi un moto di speranza. — Spegnete le lampade — dissi, notando gli echi nella vaporosa cavità della caverna. — Anche le torce.

Speravo di scorgere nel buio uno scintillio di luce al di là della parete di ghiaccio, o sotto… una speranza di salvezza, un’indicazione che quella caverna di ghiaccio era limitata, che una frana aveva bloccato l’uscita.

Il buio divenne totale. Per quanto aspettassimo, i nostri occhi non si adattavano alla mancanza di luce. Imprecai e rimpiansi il visore notturno che avevo perduto su Mare Infinitum: se lì avesse funzionato, significava che da qualche parte filtrava un po’ di luce. Aspettammo ancora un poco, completamente ciechi. Udivo Aenea tremare, percepivo il vapore del nostro respiro.

— Accendete le luci — dissi alla fine. Non c’era stato il minimo scintillio di speranza.

Illuminammo di nuovo le pareti, il soffitto, il fiume. La nebbia continuò a salire e a condensarsi in prossimità della volta. Ghiaccioli cadevano in continuazione nell’acqua fumante.

— Dove… siamo? — domandò Aenea, sforzandosi senza successo di non battere i denti.

Frugai nello zaino e trovai la termocoperta che mi ero portato, tanto tempo prima, dalla torre di Martin Sileno e infagottai la bambina. — Tratterrà il calore — dissi. — No… tienila.

— Possiamo dividercela.

Mi acquattai accanto al termocubo e lo regolai sul massimo. Cinque delle sei facce di ceramica cominciarono a brillare. — Ce la divideremo quando sarà necessario — dissi. Facendo scorrere il raggio luminoso sulla parete di ghiaccio che ci bloccava la strada, soggiunsi: — Per rispondere alla domanda, presumo che ci troviamo su Sol Draconis Septem. Alcuni miei clienti, i più ricchi e i più duri, vi andavano a caccia di spettri artici.

— Concordo — disse A. Bettik. La pelle azzurra dava l’impressione che l’androide, rannicchiato accanto alla lanterna e al termocubo, fosse più gelato di quanto non mi sentissi io. La microstoffa della tenda si era coperta di ghiaccio ed era fragile come un sottile foglio metallico. — Sol Draconis Septem ha un campo gravitazionale di 1,7 g — proseguì A. Bettik. — Dopo la Caduta, il progetto di terraforming è fallito e a quanto si dice il pianeta è tornato per la maggior parte al precedente stato di iperglaciazione.

— Iperglaciazione? — ripeté Aenea. — Cosa significa? — Grazie alla termocoperta le era tornato un po’ di colore in viso.

— Significa che in massima parte l’atmosfera di Sol Draconis Septem è solida — spiegò l’androide. — Ghiacciata.

Aenea si guardò intorno. — Mi pare che mia madre abbia parlato di questo pianeta. Una volta, nel corso di un’indagine, vi aveva inseguito un tizio. Lei era lusiana, quindi abituata a una gravità una volta e mezzo quella standard, eppure vi si era trovata a disagio. Mi sorprende che il Teti scorresse anche qui.

A. Bettik si alzò per proiettare ancora all’intorno il raggio della torcia, poi si accucciò accanto al termocubo. Perfino la sua robusta schiena s’ingobbiva per la gravità.

— Cosa dice la guida? — domandai.

A. Bettik prese il volumetto. — Annotazioni molto stringate, signore. Il Teti era stato esteso a Sol Draconis Septem solo da poco, alla data di pubblicazione della guida. Si trova nell’emisfero nord, appena fuori della zona dove l’Egemonia tentò il terraforming. Pare che la principale attrazione di questo tratto del fiume fosse la possibilità di vedere uno spettro artico.

— Ossia le prede dei tuoi amici cacciatori? — disse Aenea.

Annuii. — Bianchi. Vivono in superficie. Molto veloci. Micidiali. Ai tempi della Rete erano quasi estinti, ma dopo la Caduta sono cresciuti di numero, a sentire quei cacciatori. Evidentemente la loro dieta si basa sui residenti di Sol Draconis Septem… i superstiti. Solo gli indigeni, i coloni dell’Egira che si adattarono al pianeta secoli fa, sono sopravvissuti alla Caduta. Si ritiene che siano primitivi. Secondo i cacciatori, gli unici animali che gli indigeni possono cacciare sono gli spettri artici. E gli indigeni odiano la Pax. Corre voce che uccidano i missionari e che usino i loro tendini per farne corde d’arco, come se quei poveracci fossero spettri artici.

— Questo pianeta non è mai stato disponibile ad avere qui le autorità dell’Egemonia — disse l’androide. — Secondo la leggenda, i locali furono molto compiaciuti per la Caduta dei teleporter. Fino alla pestilenza, è ovvio.

— Pestilenza? — disse Aenea.

— Un retrovirus — spiegai. — Ridusse la popolazione dell’Egemonia da parecchie centinaia di milioni a meno di un milione. Gran parte di quel milione fu uccisa dalle poche migliaia d’indigeni. I superstiti furono fatti evacuare nei primi tempi della Pax. — Esitai e guardai la bambina: pareva il bozzetto di una giovane madonna, con la termocoperta drappeggiata in quel modo e con la pelle che riluceva nella luce della lanterna e del termocubo. — Erano tempi duri, nella Rete, dopo la Caduta.

— Così ho sentito — replicò lei, ironica. — Non erano poi così brutti, quando crescevo su Hyperion. — Guardò l’acqua nera lambire la zattera, le stalattiti di ghiaccio. — Chissà perché si sono dati tanto da fare, solo per includere nel giro turistico qualche chilometro di caverna di ghiaccio.

— Questa è la parte più curiosa — dissi, indicando con un cenno la guida. — Dice che la principale attrazione era la possibilità di avvistare uno spettro artico. Ma gli spettri, almeno da quanto ho sentito dire dai cacciatori forestieri, non scavano gallerie nel ghiaccio. Vivono in superficie.

Aenea mi fissò, riflettendo sul significato delle mie parole. — Perciò a quel tempo questa non era una caverna…

— Penso di no — disse A. Bettik. Indicò il soffitto ghiacciato. — Il tentativo di terraformare il pianeta si concentrò nel creare, in certe zone poco elevate, temperatura e pressione sufficienti a consentire la sublimazione, ossia il passaggio diretto dallo stato solido a quello gassoso, dell’atmosfera composta in gran parte di anidride carbonica e di ossigeno.

— Funzionò? — domandò la bambina.

— In zone limitate — rispose l’androide. Indicò le tenebre intorno a noi. — Immagino che questa zona fosse completamente aperta, al tempo in cui i turisti transitavano per questo breve segmento del Teti. O meglio, aperta grazie ai campi di contenimento che trattenevano l’aria e proteggevano dall’inclemenza del tempo. Quei campi, oserei dire, sono ora scomparsi.

— E noi siamo imprigionati sotto una massa di ciò che i turisti respiravano — commentai. Guardai il soffitto, poi la carabina al plasma, ancora nel suo astuccio. — Chissà quanto sarà spessa…

— Con ogni probabilità, alcune centinaia di metri almeno — disse A. Bettik. — Forse un chilometro. Era questo, lo spessore dell’aria ghiacciata a nord delle zone terraformate.

— Conosci un mucchio di cose su questo pianeta — dissi.

— Al contrario, signore. Ormai abbiamo esaurito le mie conoscenze su ecologia, geologia e storia di Sol Draconis Septem.

— Potremmo domandare al comlog — dissi, con un cenno al mio zaino, dove adesso tenevo il braccialetto.

Ci scambiammo un’occhiata. — Ah, lascia perdere — sbuffò Aenea.