Sotto il Papa ci sono due categorie amministrative principali, la Curia Romana e le cosiddette Sacre Congregazioni. De Soya sa che la Curia è una struttura amministrativa intricata e pericolosa… la sua forma "moderna" è stata fissata da Sisto V nell’a.D. 1588. La Curia comprende la Segreteria di Stato, base di potere del cardinale Lourdusamy, nella quale l’alto prelato ha le funzioni grosso modo di primo ministro, con l’ambiguo titolo di cardinale segretario di stato. Questa Segreteria è una parte importante di quella a cui spesso ci si riferisce come "la Vecchia Curia", usata dai Papi fin dal XVI secolo. In aggiunta, c’è "la Nuova Curia", iniziata come sedici corpi inferiori creati dal Secondo Concilio Vaticano, ancora comunemente noto come Vaticano II, che si concluse nell’a.D. 1965. Sotto i 260 anni di regno di Papa Giulio, questi sedici corpi sono divenuti trentun entità strettamente collegate.
Ma de Soya non è stato convocato nella Curia, bensì in uno dei suoi separati e a volte contrastanti gruppi d’autorità, ossia le Sacre Congregazioni. Per l’esattezza ha avuto l’ordine di presentarsi alla cosiddetta Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, un organismo che negli ultimi due secoli ha guadagnato (per meglio dire, riguadagnato) enorme potere. Sotto Papa Giulio, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede ha accettato di nuovo il Papa come suo Prefetto… un cambiamento di struttura che ha rivitalizzato l’ufficio. Per i dodici secoli precedenti all’elezione di Papa Giulio, quella Sacra Congregazione (nota come il Sant’Uffizio, dall’a.D 1908 all’a.D. 1964) è stata sminuita al punto da divenire quasi un organo vestigiale. Ma ora, sotto Papa Giulio, il potere del Sant’Uffizio è sentito per cinquecento anni luce di spazio e risale a tremila anni di storia.
De Soya ritorna nel salottino e si appoggia alla poltrona dove poco prima era seduto. Si sente turbinare la mente. Sa che, prima di presentarsi al Sant’Uffizio, l’indomani mattina, non avrà il permesso di vedere Gregorius o Kee. Forse non li rivedrà mai più. Cerca di sbrogliare il filo che l’ha tirato a quell’incontro, ma si perde nei lacciuoli della politica della Chiesa, di prelati offesi, di lotte di potere della Pax e nella confusione del proprio cervello intontito dalla risurrezione.
Sa una cosa: la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, nota in precedenza come Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, era conosciuta, per molti secoli prima dell’attuale, con il nome di Sacra Congregazione dell’Inquisizione Universale.
Proprio sotto Papa Giulio XIV l’Inquisizione ha ripreso a vivere secondo il nome e il senso di terrore originari. E de Soya, senza preparazione, parere legale o conoscenza delle accuse mosse contro di lui, deve presentarsi di fronte all’Inquisizione alle sette precise dell’indomani.
Con un sorriso sui paffuti lineamenti da cherubino, padre Baggio entra nella stanza. — Ha avuto una piacevole conversazione con padre Farrell, figliolo?
— Sì — risponde distrattamente de Soya. — Molto piacevole.
— Bene, bene — dice padre Baggio. — Ma penso che sia il momento di un po’ di brodo, di un po’ di preghiera… l’Angelus, mi pare… e poi di corsa a letto. Dobbiamo essere ben riposati per ciò che ci porterà il domani, vero?
38
Quando da bambino ascoltavo l’infinita serie di versi di Nonna, chiedevo sempre che mi ripetesse un brano che iniziava così: "Secondo alcuni il mondo finirà nel fuoco, / secondo alcuni finirà nel ghiaccio". Nonna non conosceva il nome del poeta (riteneva che fosse un poeta pre-Egira, un certo Frost, ma anche alla mia tenera età pensavo che quel nome, Gelo, fosse troppo ingegnoso per essere vero, visto che la poesia parlava di fuoco e di ghiaccio), ma la sola idea di un mondo che terminasse o nel fuoco o nel ghiaccio rimase a lungo con me, resistente come il monotono ritmo di quei semplici versi.
Pareva che per me il mondo dovesse terminare nel ghiaccio.
Era buio, sotto la muraglia di ghiaccio, e il freddo era talmente intenso che non trovo parole adeguate a descriverlo. Avevo già sofferto bruciature (una volta, a bordo di una chiatta che risaliva il Kans, l’esplosione di un fornello a gas mi aveva provocato leggere ma dolorose ustioni alle braccia e al torace) perciò conoscevo l’intensità del fuoco. Quel freddo mi pareva altrettanto intenso, una sorta di lenta fiamma che mi tagliava a brandelli le carni.
Mi ero legato la fune intorno al torace, sotto le braccia, e la forte corrente ben presto mi travolse, cosicché mi ritrovai trascinato, piedi in avanti, in un nero condotto; tenni alzate le mani per impedire al viso di urtare contro creste di ghiaccio duro come pietra, con il torace e le ascelle segati dalla stretta corda che A. Bettik, mollandola, usava come freno. Ben presto ebbi le ginocchia lacerate da ghiaccio affilato come lama di rasoio, perché la corrente continuava a scagliarmi sempre più in alto contro l’irregolare soffitto di ghiaccio, come se mi trascinasse su di un terreno sassoso.
Mi ero messo le calze, pensando più al ghiaccio che al freddo, ma quelle facevano ben poco per proteggermi i piedi, mentre sbattevo contro le creste. Portavo anche la biancheria, che però non mi proteggeva dagli aghi di gelo. Intorno al collo avevo la cinghia del ricetrasmettitore, col microfono premuto contro la gola per trasmettere a voce o con le semplici vibrazioni della laringe e i tappi auricolari nelle orecchie. A tracolla, strettamente assicurata con nastro adesivo, portavo la sacca impermeabile con il plastico, i detonatori, una fune e due razzi, aggiunti all’ultimo momento. Legata al polso portavo la piccola torcia laser, il cui raggio sottile tagliava l’acqua nera e si rifletteva sul ghiaccio, ma illuminava ben poco. L’avevo adoperata al risparmio, dopo il Labirinto su Hyperion: le torce manuali erano più utili se regolate sul raggio largo e consumavano meno carica. Il mio laser era quasi inutile come arma da taglio, ma mi sarebbe servito per praticare nel ghiaccio i fori per il plastico.
Se fossi vissuto abbastanza a lungo da praticare fori.
L’unica logica dietro la pazzia di lasciarmi trascinare in quel fiume sotterraneo era quel po’ di conoscenza ricavata dall’addestramento come Guardia Nazionale sull’Artiglio di Ghiaccio nel continente Ursus. Laggiù, nel mar glaciale Zampa d’Orso, dove il ghiaccio si scioglieva e tornava a solidificarsi quasi quotidianamente durante la breve estate antartica, era altissimo il rischio di sprofondare nella sottile crosta ghiacciata. Avevamo imparato che, anche se l’acqua ci avesse trascinati sotto una crosta molto più spessa, c’era sempre un sottile strato d’aria fra il mare e il soffitto di ghiaccio. Dovevamo sollevarci verso quello strato d’aria, sporgere il naso anche se il resto del viso restava sott’acqua e muoverci fino a trovare una fenditura o una parte abbastanza sottile da rompere per venire fuori.
Questa era stata la teoria. L’unica vera occasione per metterla alla prova mi si era presentata mentre facevo parte di una squadra di ricerca che si allargava a ventaglio per trovare il guidatore di uno scarabeo che era uscito dal veicolo, era precipitato a neppure due metri dal punto dove il ghiaccio sorreggeva le quattro tonnellate di macchinario ed era scomparso. L’avevo ritrovato io, a circa seicento metri dallo scarabeo e dal ghiaccio sicuro. Per respirare, aveva sfruttato quella tecnica. Il suo naso premeva ancora contro il ghiaccio troppo spesso… ma la sua bocca era spalancata sott’acqua, il suo viso era bianco come la neve che spazzava il ghiacciaio e i suoi occhi erano congelati e duri come palline di ferro. Cercai di non pensare a quell’esperienza, mentre mi facevo strada verso la superficie lottando contro la corrente, davo strattoni alla corda per segnalare ad A. Bettik di fermarmi e raschiavo il viso contro le schegge di ghiaccio per cercare aria.
C’era un’intercapedine di parecchi centimetri fra l’acqua e il ghiaccio… in massima parte frutto di fenditure che risalivano nell’aria ghiacciata come crepacci al contrario. Aspirai nei polmoni l’aria gelida, con il raggio della torcia laser illuminai le fenditure, poi spostai il raggio avanti e indietro lungo lo stretto tunnel. «Mi riposo un minuto» ansimai. «Sto bene. Quanta strada ho percorso?»