Aenea mi svegliò a scossoni. — Stai sveglio, maledizione!
"Ci proverò" le risposi col pensiero. Era una bugia, lo sapevo. Volevo solo dormire.
— A. Bettik! — gridò Aenea e mi resi conto vagamente che l’androide entrava nella tenda e consultava il medipac. Le parole dei due erano per me un remoto ronzio privo di significato.
Ero lontano, lontanissimo, quando sentii confusamente un corpo accanto al mio. A. Bettik era andato di nuovo a spingere controcorrente la zattera appesantita dalla brina. La piccola Aenea era strisciata accanto a me sotto la termocoperta e nel sacco a pelo. All’inizio non mi accorsi se il calore del suo magro corpo attraversava gli strati di ghiaccio che mi avevano invaso, ma ero consapevole del suo respiro, dei suoi gomiti appuntiti e delle sue ginocchia, della sua intrusione nello spazio che mi racchiudeva.
"No, no" pensai, rivolgendomi a lei. "Sono io il protettore… l’uomo forte, ingaggiato per salvarti." La gelida sonnolenza non mi consentiva di parlare.
Non ricordo se mi circondò con le braccia. So d’avere avuto la stessa reazione di un tronco congelato, la stessa ricettività di una delle stalattiti che si muovevano nel mio campo visivo triangolare, illuminate dal basso dal bagliore della lanterna e con la parte superiore perduta come la mia mente nel buio e nella nebbia.
Alla fine cominciai a sentire un po’ del calore emanato dal suo corpicino. Avevo una percezione confusa del calore, ma la pelle cominciò a formicolarmi: aghi di dolore, dove il calore passava dalla sua pelle alla mia. Se avessi potuto parlare, le avrei detto di scostarsi, così avrei potuto sonnecchiare nell’insensibilità.
Qualche tempo dopo… potevano essere trascorsi quindici minuti o due ore… A. Bettik tornò nella tenda. Ero abbastanza cosciente da capire che aveva seguito il nostro piano: "ancorare" la zattera, mediante le pertiche e il timone, nella strettoia a monte del fiume, sotto la parte visibile dell’arcata del teleporter. Secondo la nostra teoria, al momento dell’esplosione l’arcata metallica ci avrebbe forse protetti dalla valanga e dalla cascata di ghiaccio.
"Fai esplodere le cariche" volevo dirgli. Ma l’androide, invece di inviare il segnale in codice, si spogliò, restando con quei suoi buffi calzoncini gialli tropicali, e strisciò sotto la termocoperta, con la bambina e me.
La situazione potrebbe sembrare comica (forse lo sembrerà davvero, a chi leggerà queste righe) ma niente in vita mia mi ha profondamente commosso come quel gesto: la disponibilità dei miei due compagni di viaggio a condividere con me il loro calore. Neppure la coraggiosa e temeraria impresa di salvarmi dall’oceano violaceo mi aveva toccato fino a quel punto. Restammo lì distesi… Aenea alla mia sinistra, col braccio intorno a me; A. Bettik alla mia destra, col corpo rannicchiato per ripararmi dal freddo che filtrava dall’angolo della termocoperta. Tra qualche minuto avrei pianto per il dolore causato dal ritorno della circolazione del sangue, per la sofferenza della carne che si scongelava; ma in quel momento piansi per l’intimo dono del loro calore, mentre il tepore vitale fluiva in me dalla bambina e dall’uomo dalla pelle azzurra, fluiva in me dal loro sangue e dalla loro carne.
Piango adesso, nel raccontarlo.
Non so quanto tempo restammo in quella posizione. Non l’ho mai domandato e loro non ne hanno mai parlato. Sarà stata almeno un’ora. Parve un’intera vita di tepore e di sofferenza e d’kresistibile gioia per il ritorno della vita.
A un certo punto cominciai a rabbrividire, poi a tremare e poi fui in preda a un tremito violento, come per una crisi. Allora i miei amici mi tennero fermo, non mi permisero di sottrarmi al calore. Credo che a quel punto anche Aenea piangesse, ma non gliel’ho mai chiesto e in seguito lei non ne parlò mai.
Alla fine, dopo che il dolore e la paralisi mi erano in gran parte passati, A. Bettik scivolò fuori della comune protezione, consultò il medipac e si rivolse alla bambina in un linguaggio che potevo di nuovo capire: — Tutte le spie sul verde — disse piano. — Nessun congelamento permanente. Nessun danno permanente.
Poco dopo Aenea uscì da sotto la coperta e mi aiutò a mettermi seduto, sistemandomi dietro la schiena e la testa due zaini incrostati di brina. Mise a bollire acqua sul termocubo, preparò tazze di tè fumante e me ne accostò una alle labbra. A quel punto potevo muovere le mani, perfino flettere le dita, ma il dolore era troppo forte per consentirmi di reggere un qualsiasi oggetto.
— Signor Endymion — disse A. Bettik, accucciato sull’ingresso della tenda — sono pronto a trasmettere il codice di detonazione.
Risposi con un cenno d’assenso.
— Potrebbe verificarsi una pioggia di detriti, signore.
Ripetei il cenno d’assenso. Avevamo già parlato di quel rischio. Le cariche sagomate avrebbero dovuto frantumare solo le pareti di ghiaccio davanti a noi, ma le risultanti vibrazioni sismiche avrebbero potuto far crollare l’intero cumulo d’atmosfera ghiacciata, bloccare la zattera contro il basso fondale e seppellirci vivi. Avevamo giudicato che valesse la pena correre il rischio. Ora lanciai un’occhiata all’interno della microtenda contornata di brina e sorrisi al pensiero che quel misero riparo potesse offrirci protezione. Annuii per la terza volta, esortando A. Bettik a procedere.
Il rumore dell’esplosione fu più soffocato di quanto non m’aspettassi, inferiore a quello della concomitante caduta di blocchi di ghiaccio e di stalattiti, a quello del terrificante sollevamento del fiume stesso. Per un secondo pensai che l’acqua ci avrebbe sollevati e schiacciati contro il soffitto, mentre le onde, spinte dalla pressione e spostate dal ghiaccio, invadevano la zattera. Ci rannicchiammo intorno al piccolo focolare di pietra e cercammo di evitare la gelida acqua, cavalcando i tronchi scalpitanti come passeggeri di una scialuppa squassata dalla burrasca.
Alla fine le ondate e i rombi si calmarono. I violenti scossoni avevano rotto il timone e sbattuto via una delle pertiche, ci avevano spostati dal nostro sicuro rifugio e ci avevano spinti a valle fino alla muraglia di ghiaccio.
Per meglio dire, fin dove poco prima c’era la muraglia di ghiaccio.
Le cariche avevano eseguito il loro lavoro come avevamo progettato: ora la caverna era bassa e frastagliata ma, dopo un esame alla luce della torcia laser, pareva sbucare nel canale aperto. Aenea lanciò un grido d’esultanza. A. Bettik mi diede una pacca sulla schiena. Ammetto con vergogna che forse piansi di nuovo.
Non era una facile vittoria, come parve sulle prime. Blocchi e colonne di ghiaccio ostruivano ancora parte del passaggio; anche quando i lastroni diminuirono l’impeto iniziale verso la breccia, l’avanzata con l’unica pertica rimasta risultò difficile e richiese frequenti pause per consentire ad A. Bettik di frantumare a colpi d’ascia i vari ostacoli.
Dopo mezz’ora di fatica dell’androide, barcollai fin sul bordo della zattera e indicai a gesti che era il mio turno di usare l’ascia.
— È proprio sicuro, signor Endymion? — obiettò A. Bettik.
— Proprio… sicuro… — risposi, formulando con cautela le parole e costringendo la lingua e le labbra a pronunciarle correttamente.
Il lavoro con l’ascia ben presto mi scaldò al punto da eliminare gli ultimi tremiti. Sentivo le ammaccature e le scorticature che mi ero procurato contro il soffitto di ghiaccio, ma al dolore avrei pensato più tardi.
Alla fine ci aprimmo un varco tra le ultime lastre di ghiaccio e ci trovammo nella corrente aperta. Tutt’e tre battemmo per un momento le mani inguantate nei calzini, poi tornammo a rannicchiarci intorno al termocubo e a illuminare con le torce il panorama ai lati, mentre la zattera continuava ad avanzare.
Il nuovo panorama era identico al precedente: pareti verticali di ghiaccio a destra e a sinistra, stalattiti che minacciavano di cadérci addosso da un momento all’altro, rapidi flutti d’acqua nera.
— Forse il fiume resterà aperto fino alla prossima arcata — disse Aenea. Il suo alito condensato rimase sospeso nell’aria come una promessa.