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Ci alzammo tutti, mentre la zattera seguiva la curva del fiume sepolto nel ghiaccio. Per un momento ci fu confusione, mentre A. Bettik usava la pertica e io il timone spezzato, per evitare che la zattera urtasse contro la parete di sinistra. Alla fine ci ritrovammo di nuovo al centro della corrente e la velocità della zattera aumentò.

— Oh… — si lasciò sfuggire Aenea, ferma a prua. Il suo tono bastò a farci capire tutto.

Il fiume proseguiva ancora per sessanta metri, si restringeva e terminava contro un’altra muraglia di ghiaccio.

Aenea ebbe l’idea di mandare avanti in avanscoperta il braccialetto comlog. — Ha la microcamera — disse.

— Ma noi non abbiamo il monitor — obiettai. — E non posso mandare alla nave i segnali video…

Aenea già scuoteva la testa. — No, ma il comlog stesso può riferirci ciò che vede.

— Be’, sì — convenni; finalmente avevo capito. — Ma senza avere alle spalle PIA della nave è abbastanza intelligente da capire ciò che vede?

— Domandiamoglielo — suggerì A. Bettik, che aveva recuperato dal mio zaino il braccialetto comlog.

Lo attivammo e ponemmo la domanda. Il comlog ci assicurò, nella quasi arrogante voce della nave, che era del tutto capace di analizzare i dati visivi e di trasmetterci l’analisi. Anche se non galleggiava e non aveva mai imparato a nuotare, era, ci assicurò, assolutamente impermeabile.

Aenea usò la torcia laser per tagliare un pezzo di tronco, vi piantò dei chiodi e dei perni ad anello per fissare il braccialetto e anche un moschettone per la fune. Annodò la corda con un doppio nodo da marinaio.

— Avremmo dovuto usare questo sistema anche per la prima parete — dissi.

Aenea sorrise. Il suo cappello era bordato di brina. Veri e propri ghiaccioli pendevano dalla stretta tesa. — Il braccialetto forse avrebbe avuto qualche difficoltà a sistemare le cariche — disse Aenea. Mi accorsi che era sfinita.

— Buona fortuna — dissi come uno sciocco mentre lanciavamo nel fiume il pezzo di tronco col braccialetto. Il comlog ebbe la buona grazia di non rispondere. Quasi subito fu trascinato sotto la parete di ghiaccio.

Spostammo a prua il termocubo e ci accucciammo lì vicino, mentre A. Bettik alava la corda. Alzai il volume del ricevitore e nessuno di noi aprì bocca, mentre la corda si svolgeva e la voce metallica del comlog faceva rapporto.

«Dieci metri. Crepacci in alto, nessuno più largo di sei centimetri. Il ghiaccio continua.»

«Venti metri. Il ghiaccio continua.»

«Cinquanta metri. Ghiaccio.»

«Settantacinque metri. La fine del ghiaccio non è in vista.»

«Cento metri. Ghiaccio.» Il comlog era giunto alla fine della corda. Annodammo al capo il nostro ultimo pezzo di fune.

«Centocinquanta metri. Ghiaccio.»

«Centottanta metri. Ghiaccio.»

«Duecento metri. Ghiaccio.»

Avevamo terminato corda e speranza. Cominciai a ritirare il comlog. Anche se ora le mie mani erano sensibili e goffamente funzionali, avevo difficoltà a tirare controcorrente il braccialetto in pratica privo di peso, perché la trazione dell’acqua era forte e la corda era appesantita dal ghiaccio. Ancora una volta non riuscii a immaginare quale fatica avesse fatto A. Bettik per tirare a bordo me.

La fune era quasi troppo rigida per farne una matassa. Quando finalmente tirammo a bordo il comlog, fummo obbligati a rompere il ghiaccio che lo rivestiva. «Anche se il freddo riduce il mio alimentatore di corrente e il ghiaccio copre i miei visori» cinguettò il comlog «sono in grado di continuare l’esplorazione e disponibile a farlo.»

— No, grazie — rispose educatamente A. Bettik. Spense l’aggeggio e me lo restituì. Anche con i calzini a mo’ di guanti, sentii che il metallo era freddissimo. Lasciai subito cadere nello zaino il braccialetto.

— Non avremmo avuto plastico sufficiente per cinquanta metri di ghiaccio — dissi. Avevo parlato con voce assolutamente calma (avevo anche smesso di tremare) e ne capii il motivo: la cristallina e ineccepibile chiarezza della sentenza di morte appena scesa su di noi.

C’era, me ne rendo conto adesso, un’altra ragione per quell’oasi di calma in un deserto di sofferenza e di disperazione. Il calore. Il calore che ben ricordavo. Il flusso di vita da quei due a me, l’accettazione da parte mia, il sacro senso di comunione. Ora, nel buio rotto solo dalla luce della lanterna, procedemmo con l’urgente compito di tentare di restare vivi, discutemmo soluzioni impossibili come l’uso della carabina al plasma per aprirci una via nel ghiaccio, scartammo soluzioni impossibili, esaminammo altri piani impossibili. Ma nel frattempo, in quel gelido e buio abisso di confusione e di crescente disperazione, il nucleo di calore che era stato alitato dentro di me da quei due… sì, amici… mi mantenne calmo, proprio come il loro contatto umano mi aveva tenuto in vita. Nei difficili giorni a venire (perfino adesso, mentre scrivo queste righe, mentre m’aspetto che a ogni respiro giunga, furtiva, la morte mediante cianuro) il ricordo di quel calore condiviso, di quella prima totale comunione di vita, mi mantiene calmo e saldo nella tempesta delle umane paure.

Decidemmo di spingere di nuovo la zattera a monte per tutto il nuovo canale, alla ricerca di un crepaccio, una nicchia, un pozzo, che ci fossero sfuggiti. Pareva un’impresa disperata, ma forse un briciolo meno disperata di lasciare che la zattera continuasse a premere contro quella terminale cascata di ghiaccio.

Trovammo la fenditura proprio sotto il punto dove il fiume ci aveva costretto a piegare a destra. Evidentemente eravamo stati troppo impegnati a tenerci a distanza dalla parete di ghiaccio e a tornare al centro della corrente, per notare il crepaccio stretto e frastagliato lungo la muraglia alla nostra sinistra. Anche se cercavamo con diligenza, senza il raggio compatto della torcia laser non avremmo mai scoperto la stretta apertura: la luce della lanterna, riflessa dalle sfaccettature cristalline e dalle stalattiti, la rendeva invisibile. Il buon senso ci disse che si trattava semplicemente di un’altra piega di ghiaccio, l’equivalente orizzontale dei crepacci da me trovati nel soffitto: uno spazio per respirare che non portava da nessuna parte. Il nostro bisogno di speranza pregò che il buon senso sbagliasse.

L’apertura (o piega o qualsiasi cosa fosse) era larga meno di un metro e si apriva all’aria quasi due metri sopra il fiume. Ci accostammo e alla luce della torcia laser vedemmo che l’apertura o si restringeva e terminava, oppure curvava dopo meno di tre metri. Il buon senso ci disse che quella era la fine del vicolo cieco di ghiaccio. Anche stavolta lasciammo perdere il buon senso.

Mentre Aenea faceva forza sulla pertica per mantenere ferma la zattera malgrado il ribollire dell’acqua, A. Bettik mi sollevò. Usai l’estremità biforcuta del martello come attrezzo da scalata: la piantai profondamente nel pavimento di ghiaccio della stretta gola e mi tirai su con la velocità della disperazione. Una volta carponi sul ripiano, ansimante e sfinito, ripresi fiato, mi alzai e rivolsi un gesto agli altri due più in basso. Avrebbero aspettato il mio rapporto.

Lo stretto tunnel di ghiaccio piegò bruscamente a destra. Sentendo aumentare la speranza, illuminai con la torcia laser il nuovo corridoio. Un’altra parete di ghiaccio riflette il raggio, ma stavolta non mi parve una curva. No… un momento. Mentre m’inoltravo nel nuovo tunnel, piegato in due a causa del basso soffitto, mi accorsi che subito dopo quel punto il tunnel saliva ripidamente. Il raggio era stato riflesso da una rampa di ghiaccio. Lì non esisteva la percezione della profondità.

M’infilai nello spazio ristretto, strisciai carponi per una decina di metri, raschiando con gli stivali il ghiaccio frastagliato. Pensai al negozio della deserta Nuova Gerusalemme dove avevo "comprato" quegli stivali (lasciando in cambio sul bancone le pantofole d’ospedale e una manciata di banconote provvisorie di Hyperion) e cercai di ricordare se nel reparto sportivo c’erano stati in vendita ramponi da ghiaccio. Troppo tardi, ormai.

A un certo punto fui costretto a strisciare sullo stomaco, di nuovo sicuro che il tunnel sarebbe terminato nel giro di un metro; ma stavolta il tunnel girò bruscamente a sinistra e continuò, dritto e in piano, nel cuore del ghiacciaio, per altri venti metri, prima di deviare a destra e salire di nuovo. Ansimante, scosso dall’eccitazione, corsi, scivolai e a colpi di martello tornai indietro verso l’apertura. Il raggio della torcia laser traeva dal ghiaccio innumerevoli riflessi della mia faccia eccitata.