A poco a poco, mentre nei due giorni seguenti giravamo e parlavamo con loro nella costante semioscurità dei tunnel, cominciammo a riconoscerli e imparammo i loro nomi. Cuchiat, il capo, malgrado la voce che pareva un rombo di valanga, era un uomo gentile, pronto a sorridere con le labbra e con gli occhi. Chiaku, il suo vice, era il più alto della banda e portava una pelliccia di spettro artico con una traccia di sangue, una sorta d’onorificenza, come apprendemmo in seguito. Aichacut era l’arrabbiato del gruppo: spesso ci guardava di storto e manteneva sempre le distanze. Ritengo che, se il capo dei cacciatori fosse stato Aichacut, il giorno del nostro primo incontro ci sarebbero stati morti sul ghiaccio.
Cuchtu era una sorta di stregone; aveva il compito di girare intorno alla nicchia o al tunnel dove avremmo dormito, mormorando incantesimi e premendo sul ghiaccio il palmo delle mani, dopo essersi tolto i guanti di pelle di spettro artico. Secondo me, cacciava via i cattivi spiriti. Aenea suggerì ironicamente che forse faceva solo ciò che facevamo anche noi… cercava una via d’uscita da quel labirinto di ghiaccio.
Chichticu portava il braciere e si mostrava chiaramente orgoglioso dell’onore riservatogli. Le braci erano per noi un mistero: continuavano a emettere luce e calore per giorni… settimane… eppure non erano mai rincalzate né rinnovate. Solo quando incontrammo padre Glauco chiarimmo il mistero.
La banda non comprendeva bambini; comunque per noi era difficile stabilire l’età dei Chitchatuk. Cuchiat era chiaramente più anziano di molti altri… il suo viso era una ragnatela di rughe che si dipartivano dalla radice del naso a spatola, largo e schiacciato… ma con nessuno di loro riuscimmo a discutere la questione dell’età. Capivano che Aenea era una bambina, o almeno una giovane adulta, e la trattavano come tale. Le donne del gruppo (lo notammo dopo averne riconosciute tre) ricoprivano i ruoli di cacciatore e di sentinella, a turno con gli uomini. Anche se diedero pure ad A. Bettik e a me l’onore di montare la guardia mentre la banda dormiva (tre persone armate stavano sempre sveglie) i Chitchatuk non chiesero mai a Aenea di fare il suo turno. Ma era chiaro che la trovavano simpatica e che si divertivano a parlare con lei, usando quella combinazione di semplici parole e di gesti complicati che fin dal paleolitico ha fatto da ponte per superare le distanze fra i popoli.
Il terzo giorno Aenea riuscì a far capire che voleva tornare al fiume. Sulle prime i Chitchatuk rimasero perplessi, ma i segni e le poche parole già imparate bastarono a Aenea per trasmettere il concetto: il fiume, la zattera galleggiante, l’arcata del teleporter sepolta nel ghiaccio (a questo reagirono con grandi esclamazioni) e poi la muraglia di ghiaccio e la risalita del tunnel e l’incontro con i nostri amici Chitchatuk.
Quando Aenea propose di andare al fiume tutti insieme, nel giro di qualche minuto la banda raccolse le pellicce giaciglio, le infilò nelle sacche di pelle di spettro artico e si mise in marcia con noi. Per una volta procedevo in testa, seguendo l’ago luminoso della bussola inerziale che indicava le numerose svolte, curve, salite e discese percorse nei tre giorni di vagabondaggio.
Se non fosse stato per i nostri cronometri, mi sembra giusto dirlo, nei tunnel di ghiaccio di Sol Draconis Septem il tempo sarebbe scomparso. L’immutabile fioca luce proveniente dal braciere d’osso, il luccichio delle pareti di ghiaccio, l’oscurità davanti a noi e dietro di noi, il gelo opprimente, i brevi periodi di sonno e le lunghe ore di fatica per percorrere i tunnel portando sulla schiena il peso della gravità del pianeta… tutto si combinava per distruggere il nostro senso del tempo. Ma secondo il cronometro, fu nel tardo pomeriggio del terzo giorno da quando avevamo abbandonato la zattera che scendemmo l’ultimo tratto di cunicolo e tornammo al fiume.
Fu una triste scena: l’albero maestro spezzato e i tronchi scheggiati, la prua quasi sommersa per l’accumulo di ghiaccio, la lanterna imbiancata da una patina di brina, il senso di vuoto e d’abbandono dell’imbarcazione priva della tenda e delle attrezzature. I Chitchatuk rimasero affascinati e mostravano un’animazione che non avevamo mai visto in loro dal giorno del nostro incontro. Usando funi di pelle intrecciata, Cuchiat e alcuni altri si calarono sulla zattera ed esaminarono attentamente ogni cosa: la pietra focolare, le lanterne metalliche, la fune di nylon adoperata per legare i tronchi. La loro animazione era tangibile e mi resi conto che in una società dove un unico tipo d’animale (abile predatore, oltretutto) rappresentava l’unica fonte di materiali da costruzione, d’armamento e di vestiario, la zattera era un vero e proprio tesoro di materie prime.
Avrebbero potuto tentare di ucciderci e di appropriarsi di quella ricchezza, ma i Chitchatuk erano gente generosa e neppure la cupidigia poteva modificare la loro convinzione che tutti gli esseri umani erano alleati, proprio come tutti gli spettri artici erano nemici e prede. Fino a quel momento non avevamo ancora visto uno spettro artico… a parte, è logico, le pelli che ora portavamo sopra i nostri vestiti, poiché le pellicce erano incredibilmente calde e in capacità isolante rivaleggiavano con la termocoperta, tanto che avevamo rimesso negli zaini parte dell’abbigliamento. Ma se allora eravamo all’oscuro della potenza e della fame degli spettri artici, ben presto le avremmo sperimentate.
Ancora una volta Aenea trasmise il concetto di noi che galleggiavamo lungo il fiume e attraversavamo l’arcata. Descrisse a gesti la muraglia di ghiaccio… la indicò… e poi mostrò la continuazione del nostro viaggio sul fiume fino alla seconda arcata.
Questo animò maggiormente Cuchiat e la sua banda; i Chitchatuk cercarono di parlarci senza usare il linguaggio dei segni e c’investirono di frasi che alle nostre orecchie parvero cascate di ciottoli. Visto che non riuscivano a spiegarsi, si girarono e parlarono animatamente fra loro. Alla fine Cuchiat avanzò di un passo e ci rivolse una breve frase. Udimmo la parola "glauco" ripetuta varie volte (l’avevamo già notata nei loro discorsi, perché pareva estranea alla loro lingua) e quando Cuchiat gesticolò verso l’alto e ripeté il segno per indicare che tutti salivamo verso la superficie, concordammo volentieri.
E così, ciascuno infagottato in pelliccia di spettro artico, la schiena piegata sotto il peso dello zaino e dell’estenuante gravità, strusciando i piedi sul ghiaccio duro come roccia, ci dirigemmo alla città sepolta dove avremmo incontrato il prete.
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Quando infine giunge, l’invito di rilasciare il Padre Capitano de Soya dai virtuali arresti domiciliari nel rettorato dei Legionari di Cristo non proviene dal Sant’Uffizio dell’Inquisizione, come ci si aspettava, ma è portato di persona da monsignor Luca Oddi, sottosegretario del Segretario di Stato del Vaticano cardinale Simon Augustino Lourdusamy.
Per de Soya, la passeggiata nella Città del Vaticano e nei Giardini Vaticani è quasi sconvolgente. Qualsiasi cosa il Padre Capitano veda e senta… il cielo azzurro chiaro di Pacem, lo svolazzare di fringuelli nei frutteti di peri, il sommesso rintocco di campane del Vespro… provoca in lui una profonda commozione, al punto che deve farsi forza per trattenere le lacrime. Intanto, mentre camminano, monsignor Oddi conversa amabilmente, mescolando pettegolezzi locali e storielle, in un modo che fa ancora ronzare le orecchie a de Soya anche quando si è lasciato alle spalle da un pezzo la parte dei giardini dove le api svolazzano fra lo spiegamento di fiori.
De Soya si concentra sull’alto, anziano prelato che lo guida a passo così vivace. Oddi è molto alto e avanza come se scivolasse: le sue lunghe gambe non fanno quasi rumore, sotto l’abito talare. Ha un viso sottile e scaltro, pieghe e rughe modellate da molti decenni di facezie, un lungo naso a becco che pare fiutare l’aria del Vaticano in cerca di umorismo e di pettegolezzi. De Soya ha già sentito le battute su monsignor Oddi e il cardinale Lourdusamy, l’uomo alto e scherzoso e l’uomo gigantesco e scaltro: insieme, hanno un aspetto quasi comico… se ci si dimentica del potere davvero terrificante di cui dispongono.