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— Signorina Aenea — disse l’intabarrato A. Bettik — non ho capito che cosa diceva il signor Chiaku. Qualcosa a proposito di numeri?

Il viso di Aenea in pratica scompariva sotto la griglia di zanne della pelliccia. Sapevo che le pelli provenivano tutte da cuccioli di spettro artico, ma mi era bastato scorgere per un attimo le bianche braccia grosse come il mio tronco che si protendevano dalla parete di ghiaccio e i neri artigli lunghi come il mio avambraccio, per capire quant’erano enormi quei cuccioli. A volte, mi resi conto (intanto avevo tolto la sicura alla carabina e stavo cercando di procedere a passi felpati malgrado l’opprimente gravità di Sol Draconis Septem) la via più breve per il coraggio è l’assoluta ignoranza.

— … perciò penso che si riferisse al fatto che la banda non è più formata da un numero primo di persone — diceva in quel momento Aenea all’androide. — Prima che quella sventurata… fosse presa… eravamo ventitré di loro più tre di noi, cosa che andava bene. Ma ora devono trovare presto un rimedio, altrimenti… non so… altra malasorte.

Per quanto ne capii, risolsero il problema del numero portasfortuna mandando avanti Chiaku come esploratore. O forse il Chitchatuk si offrì semplicemente di stare lontano dal gruppo finché gli altri non ci avessero lasciato nella città sepolta… venticinque, in quanto numero dispari, poteva essere sopportato per breve tempo, ma senza di noi la banda sarebbe stata composta di ventidue persone, un numero del tutto inaccettabile.

Quando giungemmo alla città, lasciai perdere tutti i pensieri sulle preoccupazioni dei Chitchatuk per i numeri primi.

Per prima cosa vedemmo la luce. Nel giro di pochi giorni i nostri occhi si erano abituati al fioco bagliore delle braci del "chuchkituk", ossia del braciere d’osso, al punto che perfino l’occasionale balenio delle nostre torce pareva accecante. La luce della città sepolta nel ghiaccio fu realmente dolorosa.

Un tempo l’edificio era d’acciaio o plastacciaio e vetro intelligente, alto forse settanta piani, e probabilmente guardava su una piacevole e verdeggiante valle terraformata… forse era rivolto a sud, verso il fiume distante mezzo chilometro. Ora il nostro tunnel di ghiaccio si apriva in una breccia nel vetro, dalle parti del 59° piano; le lingue del ghiacciaio avevano piegato l’armatura metallica dell’edificio e avevano trovato vie d’accesso in vari piani.

Ma il grattacielo non era crollato e forse sporgeva i piani superiori nel vuoto nero e quasi assoluto sopra il ghiacciaio. E risplendeva ancora di luce.

I Chitchatuk si fermarono all’ingresso, riparandosi gli occhi dal bagliore e ulularono in un tono diverso dal precedente lamento per la cattura della donna. Era un richiamo. Mentre stavamo lì ad aspettare, fissai l’aperto scheletro d’acciaio e di vetro dell’edificio, le decine e decine di lampade appese da tutte le parti, piano su piano, tanto che attraverso il limpido ghiaccio vedevamo sotto i nostri piedi l’edificio dalle finestre vividamente illuminate sprofondare come in un abisso.

Poi padre Glauco venne verso di noi, attraversando un ambiente che era per metà caverna di ghiaccio e per metà stanza d’ufficio. Indossava la lunga tonaca nera e il crocifisso che mi ricordavano i gesuiti del monastero nei pressi di Port Romance. Fu subito chiaro che l’anziano prete non ci vedeva… i suoi occhi erano lattei per la cataratta e ciechi come sassi; ma non fu questa la prima cosa di padre Glauco che mi colpì: il prete era vecchio, vecchissimo, canuto, barbuto come un patriarca, e quando Cuchiat lo chiamò, parve risvegliarsi da una sorta di trance, inarcando le candide sopracciglia e corrugando l’alta fronte. Labbra avvizzite e screpolate si arricciarono in un sorriso. Potrebbe sembrare un atteggiamento bizzarro, ma in padre Glauco non c’era niente di bizzarro… non la sua cecità, non l’abbagliante barba bianca, non la pelle maculata e sciupata dalle intemperie, non le labbra avvizzite. Era… se stesso… a tal punto che ogni paragone è inutile.

Avevo avuto parecchie riserve sull’incontro con quel "glauco"… per timore che avesse qualche rapporto con la Pax da cui fuggivamo… e ora, vedendo che era un prete, avrei dovuto afferrare la bambina e A. Bettik e filarmela con loro e i Chitchatuk. Ma nessuno di noi tre sentì l’impulso di fuggire. Quel vecchio non era la Pax… era solo padre Glauco. Lo scoprimmo qualche minuto dopo il nostro primo incontro.

Ma subito, prima che uno di noi aprisse bocca, il prete cieco parve percepire la nostra presenza. Parlò a Cuchiat e a Chichticia nella loro lingua e poi all’improvviso si girò dalla nostra parte e sollevò la mano come se con il palmo potesse percepire il nostro calore… di Aenea, di A. Bettik, di me stesso. Allora si avvicinò a noi, fermi sul confine fra l’avvolgente caverna di ghiaccio e la stanza avvolta dal ghiaccio.

Padre Glauco venne direttamente da me, mi mise sulla spalla la mano ossuta e disse, forte, in un inglese chiaro della Rete: — Tu sei l’uomo!

Ho impiegato un certo tempo… anni… a porre nella giusta prospettiva quelle parole. A quel tempo pensai soltanto che il vecchio prete aveva perso il senno, oltre la vista.

Decidemmo che ci saremmo fermati per qualche giorno con padre Glauco nel suo grattacielo subglaciale, mentre i Chitchatuk sarebbero andati a fare importanti cose chitchatukesche (Aenea e io ritenemmo che la loro massima priorità fosse ripristinare il numero primo del gruppo) e poi sarebbero tornati a vedere che cosa combinavamo. Aenea e io eravamo riusciti a spiegare a segni che volevamo smontare la zattera e portarla a valle fino all’arcata del teleporter. Ci era sembrato che i Chitchatuk avessero capito: almeno, avevano fatto cenni d’intesa e avevano detto "chia", parola con cui assentivano, quando avevamo mimato l’arcata e la zattera che l’attraversava. Se avevo capito la loro risposta a voce e a gesti, il viaggio fino al portale avrebbe richiesto una camminata di diversi giorni in superficie, in una zona infestata dagli spettri artici. Dissero, ne sono sicuro, che ne avremmo riparlato appena soddisfatta la necessità di "cercare indivisibile equilibrio": ossia, immaginammo, trovare un altro membro per il loro gruppo… o perderne tre. L’ultima prospettiva dava da pensare.

In ogni caso, saremmo rimasti con padre Glauco fino al ritorno del gruppo. Il prete cieco chiacchierò animatamente con i Chitchatuk per alcuni minuti; poi rimase sull’ingresso della caverna di ghiaccio, in ascolto, finché il bagliore del braciere d’osso non fu svanito da tempo.

Allora padre Glauco ci diede di nuovo il benvenuto, passandoci la mano sul viso, sulle spalle, sulle braccia. Confesso di non avere mai sperimentato una simile presentazione. Quando strinse fra le mani il viso di Aenea, il vecchio disse: — Un bambino. Non mi sarei mai aspettato di vedere di nuovo un bambino.

Non capivo. — E i Chitchatuk? — dissi. — Anche loro sono esseri umani. Avranno anche loro dei bambini.

Prima delle "presentazioni", padre Glauco ci aveva guidati nel grattacielo e su per una rampa di scale fino a una stanza più calda, senza dubbio il suo luogo di soggiorno: c’erano lanterne e bracieri in cui ardeva vividamente la stessa carbonella usata dai Chitchatuk, solo che lì lanterne e bracieri erano centinaia e c’erano comodi mobili e un antiquato apparecchio per suonare dischi di musica e scaffali di libri che rivestivano le pareti… cosa che trovai incongrua, nella casa di un cieco.

— I Chitchatuk hanno bambini — rispose il vecchio prete — ma non li fanno stare con le bande che girano così lontano a nord.

— Perché? — domandai.

— Gli spettri artici — spiegò padre Glauco. — A nord della vecchia linea di terraforming sono numerosissimi.

— Pensavo che i Chitchatuk dipendessero per tutto dagli spettri artici.

Il vecchio annuì e si lisciò la barba, piena, candida, tanto lunga da nascondere il solino. Aveva una tonaca rattoppata e rammendata con cura, ma gualcita e lisa. — I miei amici Chitchatuk dipendono totalmente dai cuccioli di spettri artici — precisò. — Il metabolismo degli adulti rende la pelle e le ossa inutili per i loro scopi…