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Scossi la testa. — Non capisco. La superficie è in pratica priva d’aria, giusto? Voglio dire…

— Hanno tutti i materiali di cui avrete bisogno per il viaggio, Raul, figliolo — disse padre Glauco.

Aichacut ringhiò qualcosa. Cuchiat aggiunse qualche altra frase, in tono più calmo.

— Sono pronti a partire appena vi decidete, amici miei. Cuchiat dice che occorreranno due periodi di sonno e tre di marcia per tornare alla vostra zattera. Poi punteranno a nord, fin dove giungono i cunicoli… — S’interruppe e per un momento distolse il viso.

— Cosa c’è? — domandò Aenea, preoccupata.

Padre Glauco girò la testa. Mostrò un sorriso sforzato. Si ravvivò la barba. — Sentirò la vostra mancanza. Era tanto tempo che non… ah, divento vecchio! Venite, vi aiuteremo a preparare i bagagli, faremo un veloce spuntino e vedremo se nella dispensa c’è qualcosa da aggiungere alle vostre provviste.

Il congedo fu doloroso. Il pensiero del vecchio prete, di nuovo lì da solo, con niente di più di poche lampade accese per tenere a bada gli spettri artici e il ghiacciaio planetario, mi faceva male al cuore. Aenea pianse. Quando A. Bettik gli strinse la mano, padre Glauco l’abbracciò con forza, lasciandolo stupito. — Il suo giorno deve ancora giungere, signor Bettik, amico mio — disse. — Lo sento. Lo sento chiaramente.

A. Bettik non rispose, ma più tardi, mentre seguivamo i Chitchatuk nel cuore del ghiacciaio, vidi che si girava a lanciare un’occhiata all’alta figura stagliata contro la luce; poi, superato l’angolo, imboccammo un altro tunnel che ci nascose l’edificio, la luce e il vecchio prete.

Impiegammo davvero due periodi di sonno e tre di marcia per giungere all’ultima rampa di ghiaccio, scesa sdruccioloni; attraversammo la stretta fenditura e uscimmo nel punto dove la zattera era legata. Non c’era modo, a mio parere, di portare i tronchi nei tunnel pieni di curve e di strettoie; ma stavolta i Chitchatuk non persero tempo ad ammirare la zattera rivestita di ghiaccio e si misero subito al lavoro, sciogliendo i legacci e separando i tronchi.

Durante la prima visita, tutta la banda si era meravigliata alla vista della nostra ascia e ora fui in grado di mostrare come si usava: tagliai ogni tronco in pezzi più corti, ciascuno di un metro e mezzo. Utilizzando la mia torcia laser ormai a corto di carica, A. Bettik e Aenea mi imitarono, nella nostra improvvisata catena di montaggio; intanto i Chitchatuk raschiavano il ghiaccio dalla zattera che stentava a stare a galla, tagliavano o disfacevano nodi e portavano i tronchi nel punto dove li tagliavamo e li ammucchiavamo. Al termine, sulla sporgenza di ghiaccio c’erano anche la pietra focolare e le lanterne extra, mentre i tronchi erano accatastati nel tunnel, come la legna da ardere per l’anno venturo.

Sulle prime quel pensiero mi divertì, ma poi mi resi conto di quanto sarebbe stata gradita ai Chitchatuk una simile provvista di materiale combustibile… calore, luce per tenere lontano gli spiriti artici. Guardai con occhi diversi la nostra zattera smantellata. Be’, se non riuscivamo ad attraversare il secondo portale…

Servendoci ora di Aenea come interprete, comunicammo a Cuchiat che ci sarebbe piaciuto lasciargli l’ascia, il focolare e le varie altre cose. Mi sembra giusto dire che le facce dietro i denti di spettro artico parvero sbalordite. I Chitchatuk si ammassarono intorno a noi, ci abbracciarono e ci diedero manate sulle spalle, con forza tale da lasciarci senza fiato. Perfino il rabbioso Aichacut mostrò qualcosa di simile a un rude affetto.

Ogni membro della banda si legò sulla schiena tre o quattro pezzi di tronco; A. Bettik, Aenea e io li imitammo (i tronchi pesavano come se fossero di cemento, in quella gravità) e iniziammo il lungo viaggio in salita, verso la superficie, il vuoto, le tempeste e gli spettri artici.

47

La presa neurale di Rhadamanth Nemes impiega meno d’un minuto per sondare il cervello di padre Glauco. In una combinazione d’immagini visive, di linguaggio e di semplici dati chimici relativi alle sinapsi, Nemes ha un quadro completo della visita di Aenea alla città sepolta nei ghiacci: il massimo possibile, senza una completa dissezione neurologica. Ritrae il microfilamento e si concede alcuni secondi per valutare i dati.

Aenea, il suo compagno umano Raul e l’androide sono andati via da tre giorni e mezzo, ma almeno uno di quei giorni, calcola Nemes, sarà stato necessario per smontare la zattera. Il secondo teleporter si trova a una trentina di chilometri verso nord e i Chitchatuk guideranno la bambina e i suoi compagni, in un viaggio di superficie, pericoloso e lento. Nemes sa che ci sono buone probabilità che Aenea non sia sopravvissuta al viaggio: ha visto nella mente del vecchio prete i rozzi mezzi con cui il Popolo Indivisibile affronta la superficie del pianeta.

Increspa le labbra in un debole sorriso. Non lascerà niente al caso.

Padre Glauco geme flebilmente.

Nemes, col ginocchio sul petto del vecchio prete, esita. La sonda neurale non ha causato gravi danni: un medipac di modello recente potrebbe guarire il foro del filamento fra l’occhio e il cervello del vecchio. E poi il vecchio era già cieco.

Nemes valuta l’imprevisto: incontrare sul pianeta un prete della Pax non faceva parte dell’equazione. Mentre padre Glauco comincia ad agitarsi e si porta al viso le mani ossute, Nemes valuta le possibilità: lasciare in vita il prete… un missionario dimenticato, in esilio, destinato a morire comunque su quel pianeta… comporterebbe pochissimo rischio. D’altro canto, Nemes lo sa, non lasciarlo in vita non comporta alcun rischio di qualsiasi sorta. Una equazione semplice.

— Chi… sei? — geme il prete, mentre Nemes lo solleva senza sforzo e dalla cucina lo porta di peso nella stanza da pranzo, da li nella biblioteca tappezzata di volumi e scaldata dal fuoco di pastiglie di combustibile, da lì nel corridoio in corrispondenza del nucleo centrale dell’edificio. Perfino lì ci sono lampade accese, per scoraggiare gli spettri artici.

— Chi sei? — ripete il prete cieco, dimenandosi nella stretta come un bambino di due anni fra le braccia di un adulto robusto. — Perché lo fai? — dice ancora padre Glauco, mentre Nemes si accosta al pozzo dell’ascensore, spalanca con un calcio la porta di plastacciaio e tiene ancora un momento in bilico il vecchio prete.

Dalla superficie, una raffica d’aria gelida scende nelle glaciali profondità duecento metri più in basso. Il rumore dà l’impressione che il pianeta di ghiaccio urli. All’ultimo momento padre Glauco capisce che cosa sta per accadere. — Ah, Gesummio, Signore — mormora, con un tremito delle labbra screpolate. — Ah, San Teilhard… Buon Dio…

Nemes lascia cadere nel pozzo il vecchio prete e si gira, un po’ sorpresa di non udire alle sue spalle echeggiare l’urlo. Imbocca la scala verso la superficie e la sale a quattro o cinque gradini per volta, anche in quel campo gravitazionale elevato. Giunta in cima, deve farsi strada a pugni attraverso la cascata di ghiaccio: l’atmosfera si è condensata e ha invaso cinque o sei rampe. Sul tetto dell’edificio, contro il cielo nero per il vuoto spaziale e mentre la tempesta catabatica le sferza il viso scagliando cristalli di ghiaccio, Nemes attiva il campo che cambia fase e corre sul ghiaccio verso la navetta.

In quel momento tre spettri artici non ancora adulti sono impegnati a ispezionare la navetta. In un secondo Nemes prende nota di quelle creature: non mammiferi, bianca "pelliccia" costituita in realtà di scaglie tubulate in grado di trattenere atmosfera gassosa che serve a mantenere il calore corporeo, occhi funzionanti nel profondo infrarosso, esagerata capacità polmonare che permette di passare dodici e più ore in assenza d’ossigeno, lunghezza superiore a cinque metri, braccia immensamente robuste, zampe posteriori fatte per scavare e per sventrare, grande rapidità di movimento.