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Mentre Nemes si avvicina, gli spettri artici si girano. Visti contro lo sfondo nero, sembrano piuttosto enormi donnole bianche, o iguana giganti. Quei corpi allungati si muovono a velocità accecante.

Nemes prende in considerazione la possibilità di tirare dritto, ma se gli spettri attaccassero la navetta, potrebbero causare complicazioni durante il decollo. Nemes passa al modo temporapido. Gli spettri artici paiono bloccarsi a metà movimento. I cristalli di ghiaccio rimangono in sospensione contro il cielo nero.

Lavorando con efficienza, usando solo la destra e la lama dura come diamante dell’avambraccio in fase mutata, Nemes macella i tre animali. Durante il procedimento rimane un poco sorpresa per due motivi: scopre che ogni spettro artico ha due enormi cuori a cinque valvole e pare in grado di continuare a combattere anche con un solo cuore intatto; e che ognuno porta una collana di piccoli teschi. Quando ha terminato il lavoro e passa di nuovo al modo tempolento, dopo che i tre spettri artici sono crollati sul ghiaccio come enormi sacchi di spazzatura organica, Nemes trova un momento per ispezionare le collane. Teschi umani. Di bambini, probabilmente, nota con interesse.

Mette in funzione la navetta e vola verso nord… sfruttando i propulsori a reazione, perché nel vuoto quasi assoluto le tozze ali del veicolo spaziale non hanno portanza. Il radar di profondità sonda il ghiaccio e rintraccia il fiume. Sopra il livello dell’acqua ci sono centinaia di chilometri di tunnel. Gli spettri artici sono stati molto attivi in quella zona. Sullo schermo radar, l’arcata metallica del teleporter risalta come una luce brillante nella foschia scura. Il radar è meno efficiente nella ricerca di creature in movimento. Vari echi mostrano la chiara traccia di spettri artici adulti che si scavano la strada nel ghiacciaio atmosferico, ma a qualche chilometro verso nord e verso est.

Nemes fa atterrare la navetta proprio sopra l’arcata del teleporter e perlustra la superficie del ghiacciaio coperta di sastrugi, ondulazioni parallele alla direzione del vento, cercando una caverna d’accesso. Ne trova una ed entra trotterellando nel ghiacciaio; appena la pressione supera le tre libbre per pollice quadrato e la temperatura si alza a una trentina di gradi dal punto di congelamento, lascia cadere lo schermo biomorfico.

Il labirinto di tunnel è scoraggiante, ma Nemes si orienta basandosi sulla grande massa del portale metallico trecento metri più in basso e nel giro di un’ora si avvicina al livello del fiume. Laggiù l’oscurità non consente di usare gli amplificatori di luce né gli infrarossi; Nemes non ha portato una torcia, ma apre la bocca e un vivido raggio di luce gialla illumina il tunnel e la nebbia di ghiaccio davanti a lei.

Molto tempo prima che la fioca luce della lanterna di braci sia visibile nel lungo cunicolo in discesa, Rhadamanth Nemes ode il loro avvicinarsi. Spegne la luce e rimane in attesa. Il gruppo gira l’angolo e pare un branco di piccoli spettri artici, non di esseri umani; ma dai ricordi di padre Glauco Nemes riconosce Cuchiat e la sua banda. I Chitchatuk si fermano, sorpresi, alla vista di una femmina solitària senza vestiti né isolamento esterno, ferma nel tunnel del ghiacciaio.

Cuchiat avanza di un passo e parla rapidamente. — Il Popolo Indivisibile saluta la guerriera/cacciatrice/cercatrice che sceglie di viaggiare nello splendore della quasi perfetta indivisibilità. Se ti occorre calore, cibo, armi o amici, parla, perché la nostra banda ama tutti coloro che camminano su due gambe e rispetta il sentiero del numero primo.

Nella lingua Chitchatuk appresa dal vecchio prete Rhadamanth Nemes dice: — Cerco i miei amici… Aenea, Raul e l’uomo azzurro. Hanno già varcato l’arco metallico?

I ventitré Chitchatuk discutono fra loro della bizzarra donna che parla la loro lingua. Deducono che dev’essere un’amica o una congiunta del "glauco", perché parla l’identico dialetto del cieco vestito di nero che divide con i visitatori il proprio calore. Tuttavia Cuchiat risponde con una certa diffidenza: — Sono passati sotto il ghiaccio e sono scomparsi attraverso l’arcata. Ci hanno salutato e ci hanno fatto doni. Noi ti salutiamo e ti offriamo doni. La quasi perfetta indivisibilità desidera percorrere il magico fiume come i suoi amici?

— Fra un momento — dice Rhadamanth Nemes, col suo debole sorriso. Quell’incontro presenta la stessa equazione, un dilemma analogo a quello riguardante la sorte del vecchio prete. Nemes avanza di un passo. I ventitré Chitchatuk mandano esclamazioni di delizia quasi fanciullesca vedendola mutare fase e divenire d’informe argento vivo. Nemes sa che la luce delle braci, riflessa da migliaia di sfaccettature di ghiaccio, ora si rispecchia anche sulla superficie del suo stesso corpo. Passa al modo temporapido e con parsimonia di movimenti e di sforzi uccide i ventitré Chitchatuk, uomini e donne.

Ritorna in tempolento, sceglie il cadavere più vicino e gli spara nell’angolo dell’occhio una sonda cerebrale. La rete neurale del Chitchatuk, in fase di collasso per mancanza di sangue e d’ossigeno, crea la solita esplosione di allucinazioni e di folle creatività comune alla morte di simili reti… sia che appartengano a esseri umani, sia che appartengano a Intelligenze Artificiali. Ma nel mezzo della ripetizione sinaptica d’immagini della nascita… emersione da lunghi tunnel nella vivida luce e nel calore… Nemes coglie le immagini ormai sbiadite della bambina, dell’uomo alto e dell’androide che spingono la zattera rozzamente ricostruita e chinano la testa per passare sotto il ghiaccio che ricopre l’arcata del teleporter.

— Maledizione — mormora.

Lascia i cadaveri lì dove si trovano, nel tunnel che diventa sempre più buio, e percorre l’ultimo chilometro fino al livello del fiume.

C’è ben poca acqua libera, lì, e il portale è solo un piccolo arco nel ghiaccio frastagliato. Foschia e vapori turbinano intorno a Nemes, mentre si sofferma sul basso e ampio ripiano di ghiaccio dove impronte di calore mostrano che i Chitchatuk si sono radunati lì per dire addio ai loro amici.

Nemes vuole interrogare il teleporter, ma per raggiungere l’arcata deve praticare un foro in molti metri di ghiaccio o arrampicarsi sul soffitto sporgente della sezione esposta, una ventina di metri più in alto. Muta di fase solo le mani e i piedi; si arrampica, scavando nel ghiaccio profondi appigli.

Penzolando a testa in giù dalla curvatura dell’arco, Nemes posa le mani sopra un pannello e aspetta che il metallo ghiacciato si ripieghi su se stesso come pelle che si ritragga da una ferita. Allora protende microfilamenti e una sonda a fibra ottica, si collega al modulo interfaccia che la mette in contatto con il vero e proprio teleporter. Bisbigli che agiscono direttamente sul nervo uditivo le rivelano che i Tre Settori di Consapevolezza la tengono d’occhio e discutono gli eventi.

Durante i secoli dell’Egemonia dell’Uomo, tutti erano convinti dell’esistenza di centinaia di migliaia, forse di milioni, di teleporter creati dal TecnoNucleo… dalla più piccola porticina alle grosse arcate del fiume Teti e ai giganteschi portali stazionati nello spazio. Si sbagliavano tutti. Esiste un unico portale. Ma si trova in ogni luogo.

Usando il modulo interfaccia, Rhadamanth Nemes interroga il calore pulsante, vivente, del reale teleporter all’interno del travestimento mimetico di metallo, di componenti elettronici e del campo di fusione. Per secoli le persone che balzavano per teleporter all’interno della Rete (al suo culmine, un analista umano suggerì che si verificava più di un miliardo di balzi al secondo) avevano servito i Finali, quegli elementi del TecnoNucleo che si proponevano di creare una IA più avanzata, l’Intelligenza Finale la cui consapevolezza avrebbe assorbito la galassia, forse l’universo. Ai tempi della Rete, ogni volta che una persona accedeva alle sfere dati collegate via astrotel o ai teleporter, con le sue sinapsi e il suo DNA aumentava il potere di calcolo della rete neurale costruita dal Nucleo, estesa quanto la stessa Rete dei Mondi. Al Nucleo non importava niente dell’impulso viscerale dell’uomo a muoversi, a viaggiare senza spesa d’energia e di tempo, ma la Rete di teleporter era l’esca perfetta per intrecciare in qualcosa di utile il vero tessuto delle centinaia di miliardi di primitivi cervelli organici.