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Ricordo ancora un particolare della nostra ultima notte con i Chitchatuk. La tana di spettro artico era tappezzata, completamente tappezzata, di teschi e di ossa umane, incastonati nelle pareti del covo, con quella che pareva la cura d’un artista.

Durante il viaggio del giorno seguente non vedemmo spettri artici, né cuccioli né adulti; poco prima del tramonto ci togliemmo i pattini, li depositammo in una nicchia e imboccammo i tunnel di ghiaccio sopra il secondo teleporter. A una certa profondità ci trovammo di nuovo nell’aria imprigionata; allora ci togliemmo la maschera e la membrana-tuta e le restituimmo a Chatchia, ma con qualcosa di simile alla riluttanza: era come rinunciare al contrassegno d’appartenenza al Popolo Indivisibile.

Cuchiat parlò brevemente. Non riuscii a seguire la raffica di parole, ma Aenea tradusse: — Siamo stati fortunati… e qualcosa a proposito di quanto sia insolito non dover affrontare spettri artici nella traversata della superficie… ma, dice lui, la fortuna in un giorno quasi sempre porta alla sfortuna nel giorno appresso.

— Digli che mi auguro che si sbagli.

Vedere il fiume libero, con la foschia e il soffitto di ghiaccio, fu quasi un colpo. Eravamo tutti sfiniti, ma ci mettemmo subito al lavoro. Non era facile, calzando guanti di spettro artico, legare i tronchi accorciati e montare la zattera, ma i Chitchatuk lavorarono rapidamente per aiutarci e nel giro di due ore ottenemmo una versione sgraziata e ridotta della nostra precedente imbarcazione… senza albero maestro, senza tenda, senza focolare. Ma il timone era al suo posto e le pertiche, seppure più corte di prima e giuntate, avrebbero funzionato, pensavamo, in quel tratto poco profondo del Teti.

Il commiato fu più triste di quanto non avessi immaginato. Ciascuno abbracciò tutti gli altri almeno due volte. Sulle lunghe ciglia di Aenea c’erano frammenti di ghiaccio e ammetto d’avere sentito una profonda emozione bloccarmi la gola.

Poi fummo nella corrente (mi parve bizzarro, viaggiare senza muovere le gambe: avevo ancora nei muscoli e nella mente l’eco del movimento spinta-e-scivolata sui pattini-artigli di spettro artico) e vedemmo avvicinarsi il teleporter e la muraglia di ghiaccio; ci chinammo per passare sotto l’arcata sempre più bassa e all’improvviso ci trovammo… altrove.

A colpi di pertica avanzammo nel sole nascente. Ora il fiume era largo e calmo; la corrente, lenta ma continua. Le rive erano di pietra rossiccia, striate come un’ampia e graduale scalinata che emergesse dall’acqua; il deserto era di roccia rossastra, con piccoli arbusti gialli; anche i lontani lastroni dell’altura e dell’arcata erano di liscia pietra rossa. Tutto quel colore rossastro era acceso dall’enorme sole rosso che si levava alla nostra sinistra. La temperatura superava già d’un centinaio di gradi quella della caverna di ghiaccio. Ci schermammo gli occhi e ci togliemmo le pellicce di spettro artico, sistemandole come folti tappeti bianchi a prua della zattera. Gli strati di ghiaccio sui tronchi dapprima luccicarono, poi si sciolsero nel sole del mattino.

Fummo sicuri di trovarci su Qom-Riyadh ancora prima di consultare il comlog o la guida del Teti. Fu il deserto di roccia rossastra a darci l’indizio… ponti d’arenaria rosso vivo, colonne scanalate di pietra rossa che si ergevano contro il cielo rosa, delicati archi rossi che facevano sembrare insignificante il teleporter sempre più lontano. Il fiume scorreva lungo canaloni sovrastati a mo’ d’arco da quelle parabole di pietra rossa, poi curvava in una vallata più ampia dove il caldo vento muoveva la gialla artemisia e sollevava una polvere rossa che s’infilava nei lunghi, tubolari "peli" delle pellicce di spettro artico e ci entrava nella bocca e negli occhi. Verso mezzogiorno ci muovevamo attraverso una vallata più fertile. Canali d’irrigazione si dipartivano ad angolo retto dal fiume e basse palme gialle e caprifogli rosso magenta costeggiavano gli argini. Ben presto comparvero piccoli edifici e subito dopo vedemmo un intero villaggio di case ocra e rosa, ma nessuna persona.

— Come Hebron — mormorò Aenea.

— Non lo sappiamo — obiettai. — Forse la gente lavora da qualche parte fuori vista.

Mezzogiorno passò e fu pomeriggio, sempre più caldo… Qom-Riyadh, secondo la guida, aveva un giorno di ventidue ore. Per quanto i canali aumentassero di numero, le piante si moltiplicassero e i villaggi diventassero più frequenti, non c’era traccia d’esseri umani né di animali domestici. Due volte spingemmo a riva la zattera… una volta per attingere acqua da un pozzo artesiano e un’altra per esplorare un piccolo villaggio da cui proveniva un martellio che si udiva anche sul fiume. Era causato da una finestra a vasistas, rotta, che sbatteva al vento.

All’improvviso, con un grido di dolore, Aenea si piegò in due. Mi acquattai e con la pistola al plasma tenni sotto mira la via deserta, mentre A. Bettik accorreva al fianco di Aenea. Nella via non c’era nessuno. Non c’era movimento dietro le finestre.

— Niente, niente — ansimò Aenea, mentre l’androide la sorreggeva. — Una fitta improvvisa…

Accorsi anch’io, sentendomi sciocco per avere estratto la pistola. La rimisi nella fondina alla cintura, mi chinai, strinsi la mano di Aenea. — Cosa c’è, ragazzina? — Vidi che piangeva.

— Non… lo… so — riuscì a rispondere, fra i singhiozzi. — È avvenuto… qualcosa… di terribile… non so.

La portammo di peso alla zattera. — Per favore — mormorò Aenea, battendo i denti malgrado il caldo — andiamocene. Andiamo via di qui.

A. Bettik rizzò la microtenda, che ora occupava la maggior parte del pianale. Mettemmo all’ombra le pellicce di spettro artico, vi deponemmo la bambina e le demmo da bere un po’ d’acqua.

— È quel villaggio? — domandai. — Qualcosa, in quel villaggio, ti ha…

— No — disse Aenea, fra singhiozzi senza lacrime. La vedevo lottare contro ondate d’emozione che la travolgevano. — No… qualcosa di spaventoso… su questo pianeta, ma anche… dietro di noi.

— Dietro di noi? — Guardai fuori della tenda e a monte, ma vidi solo la vallata, l’ampio letto del fiume e il villaggio che rimpiccioliva, con le sue palme gialle squassate dal vento.

— Dietro di noi nel pianeta di ghiaccio? — domandò piano A. Bettik.

— Sì — riuscì a rispondere Aenea, prima di piegarsi in due per il dolore. — Fa… male.

Posai la mano sulla fronte di Aenea e sullo stomaco. La pelle era più calda del normale, anche tenendo conto del caldo della vallata e delle scottature solari sul viso e sulle braccia. Prendemmo dal mio zaino un medipac e le applicai un cerotto diagnostico. Il medipac indicò febbre alta, un dolore di livello 6,3 della scala algometrica, crampi muscolari e un elettroencefalogramma irregolare. Consigliò acqua, antinfiammatorio e l’intervento di un medico.

— C’è una città — disse A. Bettik, mentre il fiume girava intorno a un promontorio a picco.

Uscii dalla tenda per guardare. Le torri rosso-rosa, le cupole e i minareti erano ancora distanti, forse quindici chilometri nella vallata sempre più ampia, e la corrente del fiume non aveva nessuna fretta. — Resta con lei — dissi all’androide e mi spostai sulla destra per usare la pertica. La nostra zattera accorciata era molto più leggera della vecchia e ci muovemmo rapidamente con la corrente.

A. Bettik e io consultammo la guida macchiata d’acqua e decidemmo che la città era Mashhad, capitale del continente meridionale e sede della Grande Moschea, di cui ora vedevamo chiaramente i minareti, mentre il fiume passava fra villaggi sempre più grossi, quartieri periferici, zone industriali ed entrava nella città vera e propria. Aenea dormiva di un sonno inquieto. La febbre era aumentata e il medipac pulsava di spie rosse per suggerire l’intervento di un medico.