— Faccia strada — dissi.
Dal tunnel avevamo preso l’ascensore della nave per la camera stagna inferiore. A. Bettik e l’ologramma del poeta mi precedettero su per i vari piani: la sala motori con la sua indecifrabile strumentazione e la rete di tubi e di cavi; poi il ponte per il sonno criogenico… quattro cuccette di crio-fuga in cubicoli super raffreddati (ne mancava una, scoprii: quella che Martin Sileno aveva prelevato per uso personale); poi il corridoio del portello stagno centrale, dal quale ero entrato il giorno prima… le pareti di "legno" celavano un gran numero di armadi ripostiglio con roba tipo tute spaziali, veicoli fuoristrada, aerociclette, perfino alcune armi antiquate; poi la zona soggiorno, con lo Steinway e la piazzola olografica; poi di nuovo su per la scala a chiocciola, in quella che A. Bettik chiamò la "sala di navigazione" (e infatti c’era un angolino dove si vedevano alcuni strumenti elettronici per la navigazione), ma che ritenni una biblioteca, con scaffali su scaffali di libri… libri veri, stampati… e poltrone e divanetti lungo le finestre; e infine su in punta alla nave, una semplice stanza circolare con un solo letto al centro.
— Al Console piaceva guardare da qui le perturbazioni atmosferiche, mentre ascoltava musica — disse Martin Sileno. — Nave?
Le paratie della stanza circolare erano trasparenti, come la prua della nave più in alto. Intorno a noi si vedevano solo le pietre scure della torre, ma dall’alto filtrava la luce, grazie al malandato soffitto del silo. Una musica in sordina riempì all’improvviso la stanza. Pianoforte, senza accompagnamento. La melodia era antica e ossessionante.
— Czerchyvik? — domandai, tirando a indovinare.
Il vecchio poeta sbuffò. — Rachmaninoff — disse. I suoi lineamenti da satiro parvero ingentilirsi di colpo nella tenue luce. — Riesci a indovinare chi è al piano?
Ascoltai con attenzione. Il pianista era assai bravo. Non avevo idea di chi fosse.
— Il Console — disse A. Bettik, a voce molto bassa.
Martin Sileno borbottò qualcosa. — Nave… opaco — ordinò. Le pareti parvero solidificarsi. L’ologramma del poeta scomparve dalla posizione accanto alla paratia e si materializzò vicino alla scala a chiocciola. Sileno aveva la mania di quei trasferimenti improvvisi che creavano un effetto sconcertante. — Bene — disse — se abbiamo finito questo cazzo di giro, scendiamo in soggiorno e studiamo come battere in astuzia la Pax.
Le mappe erano del vecchio tipo, inchiostro su carta, ed erano aperte sulla lucida parte superiore del pianoforte a coda. Il continente Aquila allargava le ali sopra la tastiera e la testa di cavallo di Equus si arricciava più in alto, come mappa separata. L’ologramma di Martin Sileno avanzò su gambe robuste e puntò il dito all’incirca nel punto dove si sarebbe trovato l’occhio del cavallo. — Qui — disse. — E qui. — Il dito privo di massa non fece rumore sulla carta. — Il Papa ha portato le sue merdose truppe per tutta la strada da Castel Crono, qui… — il dito si piantò dove la catena montuosa della Briglia toccava il punto più orientale dietro l’occhio — giù fino al muso. Hanno velivoli qui, nella maledetta città di re Billy il Triste… — il dito batté un punto qualche chilometro a nordovest delle Tombe del Tempo — e hanno ammassato le Guardie Svizzere nella valle stessa.
Guardai la mappa. A parte la Città dei Poeti, ormai abbandonata, e la Valle delle Tombe, per più di due secoli il quarto orientale di Equus era rimasto deserto e vietato a tutti, tranne ai soldati della Pax. — Come fa a sapere che le Guardie Svizzere sono là? — domandai.
Il satiro inarcò il sopracciglio. — Ho le mie fonti.
— Le sue fonti precisano unità e armamento?
Dal rumore, parve che l’ologramma del vecchio poeta stesse per sputare sul tappeto. — Non ti occorre conoscere quante unità ci sono — replicò, brusco. — Ti basta sapere che trentamila soldati si trovano fra te e la Sfinge, dalla quale Aenea uscirà domani. Tremila di quei soldati sono Guardie Svizzere. Allora, come intendi passare in mezzo a loro?
Mi venne voglia di ridergli sul muso. Non credevo che l’intera Guardia Nazionale di Hyperion, con appoggio aereo e spaziale, potesse "passare in mezzo" anche solo a sei Guardie Svizzere, altro che tremila! Le armi, l’addestramento e i sistemi difensivi delle Guardie Svizzere erano validi fino a quel punto. Invece di ridere, esaminai di nuovo la mappa.
— Ha detto che le forze aeree sono parcheggiate all’esterno della Città dei Poeti… Sa di quale tipo sono gli aerei?
Il poeta si strinse nelle spalle. — Caccia — disse. — In quella zona i veicoli elettromagnetici non valgono una merda, lo sanno tutti, quindi hanno portato aerei a propulsione-reazione. Jet, penso.
— Autoreattori, statoreattori, pulsoreattori o aspiratori? — domandai. Volevo dare l’impressione di sapere di che cosa parlavo, ma le nozioni militari che avevo raccolto qua e là durante il servizio nella Guardia Nazionale erano basate soprattutto su: smontare l’arma in dotazione, pulire l’arma, usare l’arma, marciare nelle intemperie senza bagnare l’arma, cercare di dormire qualche ora quando non marciavi né pulivi né smontavi l’arma, cercare di non morire congelato quando non dormivi e (a volte) tenere bassa la testa per non farti centrare dai cecchini su Ursa.
— Che cazzo te ne frega del tipo d’aereo? — brontolò Martin Sileno. Si era tolto di dosso tre secoli, ma non si era certo addolcito. — Sono aerei da caccia. Li abbiamo misurati a… Nave? Che cazzo di velocità avevano, gli ultimi puntini radar?
«Tre mach» rispose la nave.
— Tre mach — ripeté il poeta. — Abbastanza veloci da volare quaggiù, bombardare fino a ridurre tutto in cenere e tornare nel continente nord prima che la birra dei piloti diventi tiepida.
Alzai gli occhi dalla mappa. — Avevo intenzione di domandarlo — dissi. — Perché non lo fanno?
Il poeta girò la testa verso di me. — Perché non fanno cosa?
— Volare quaggiù, ridurre lei in cenere e tornare a casa prima che la loro birra diventi tiepida. Lei rappresenta una minaccia per loro. Perché la tollerano?
Martin Sileno emise un borbottio. — Io sono morto. Loro pensano che sia morto. Come potrebbe, un morto, costituire una minaccia?
Sospirai e tornai a guardare le mappe. — Dovrebbe esserci in orbita una nave per il trasporto truppe, ma non credo che lei sappia quale sia il tipo della scorta.
A sorpresa, intervenne la nave. «È una spin-nave da trecentomila tonnellate, classe Akira. Scortata da due navi torcia di classe standard, la Sant’Antonio e la San Bonaventura. In orbita, più lontano, c’è anche una nave Tre-C.»
— Che cazzo è una nave Tre-C? — brontolò l’ologramma del poeta.
Lo guardai. Com’era possibile che una persona vivesse mille anni e non imparasse una cosa così banale? I poeti sono tipi bizzarri. — Comando, Comunicazione, Controllo — spiegai.
— Allora quel f.d.p. della Pax che comanda è lassù in orbita?
Mi grattai la guancia e fissai la mappa. — Non necessariamente — risposi. — Il comandante della task force spaziale sarà lassù, ma il responsabile dell’operazione può trovarsi sul pianeta. La Pax addestra i comandanti anche per operazioni combinate. Con tante Guardie Svizzere quaggiù, un alto ufficiale comanda sul pianeta.
— Bene — disse il poeta. — Come farai a passare in mezzo a loro e a portare fuori la mia piccola amica?
«Chiedo scusa» intervenne la nave «ma in orbita c’è ancora un altro veicolo spaziale. È giunto circa tre settimane fa, tempo standard, e ha inviato una navetta nella Valle delle Tombe del Tempo.»
— Che tipo di veicolo? — domandai.
Vi fu una breve esitazione. «Non lo so» rispose la nave. «Non conosco la sua configurazione. Piccola, forse delle dimensioni d’un corriere, ma il profilo di propulsione è… insolito.»