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Aspettai che sporgesse di nuovo il viso, slavato e grassoccio come il ventre d’un pesce morto; appena lo vidi riemergere, lo spinsi sotto e rimasi a guardare le bolle d’aria che gorgogliavano in superficie, mentre lui agitava le braccia e con i pugni mi colpiva inutilmente i polsi. Nel loro appostamento, gli altri tre cacciatori cominciarono a gridare. Non me ne curai.

Quando le braccia di Herrig ricaddero e il flusso di bolle si ridusse a un debole rivolo, lasciai quell’idiota e arretrai d’un passo. Per un istante pensai che non sarebbe più riemerso, ma poi il grassone schizzò a galla e si aggrappò al bordo della botte. Vomitò acqua e alghe. Gli girai le spalle e andai dagli altri tre.

— Per oggi basta — dissi. — Datemi i fucili. Torniamo indietro.

Tutt’e tre aprirono bocca per protestare, videro il mio sguardo e il viso sporco di sangue, mi diedero i fucili.

— Recuperi il suo amico — dissi all’ultimo, Poneascu. Riportai sulla barca i fucili, li scaricai, li chiusi a chiave nel compartimento impermeabile di prua e portai a poppa le scatole di cartucce. Notai, mentre lo calavo dalla fiancata, che il corpo di Izzy cominciava a irrigidirsi. Il fondo della barca era inzuppato di sangue. Tornai a poppa, misi via le cartucce e aspettai, appoggiato alla pertica.

Alla fine i tre cacciatori arrivarono, movendo goffamente la pagaia per spingere le botti e rimorchiando quella dov’era scompostamente seduto Herrig. Il grassone, livido in viso, era ancora piegato in due contro il bordo. Gli altri tre salirono sulla barca e cercarono di tirare a bordo le botti.

— No, legatele a quella radice di chalma — dissi. — Più tardi verrò a prenderle.

Legarono le botti e cercarono di tirare a bordo Herrig come se fosse un grasso pesce. Gli unici rumori erano il cinguettio e il ronzio che segnavano il risveglio degli uccelli e degli insetti, oltre ai continui conati di vomito di Herrig. Quando anche lui fu a bordo, mentre gli altri borbottavano, seduti, spinsi con la pertica la barca fino alla piantagione; intanto il sole eliminò gli ultimi vapori del mattino che si alzavano dalle acque scure.

E la storia sarebbe dovuta finire lì. Ma, naturalmente, non finì lì.

Preparavo la colazione nella vecchia cucina, quando Herrig uscì dalla baracca dormitorio, impugnando una tozza pistola a dardi dell’esercito. Su Hyperion quell’arma era illegale: la Pax ne vietava l’uso a tutti, esclusa la Guardia Nazionale. Scorgevo il viso livido e cereo degli altri tre che dalla porta del dormitorio guardavano Herrig, annebbiato dai fumi del whisky, avanzare a passo malfermo nella cucina.

Il grassone non seppe resistere all’impulso di pronunciare un breve e melodrammatico discorso, prima di uccidermi. — Tu, crocesanto figlio di puttana… — iniziò. Ma non rimasi a sentire il resto. Mentre lui sparava dal fianco, mi gettai a tuffo.

Seimila fléchettes d’acciaio fecero a pezzi il fornello, la casseruola di stufato ancora sul fuoco, il lavello, la finestra sopra il lavello, gli scaffali e il vasellame sugli scaffali. Cibo, plastica, porcellana e vetro mi piovvero sulle gambe, mentre strisciavo sotto il bancone aperto per afferrare le gambe di Herrig che intanto si sporgeva sul ripiano per innaffiarmi con un’altra scarica di fléchettes.

Afferrai per le caviglie il grassone e tirai. Herrig cadde di schiena, con un tonfo che sollevò dal pavimento di legno tanta di quella polvere da bastare per dieci anni. Gli montai sulle gambe, rifilandogli intanto una ginocchiata all’inguine, e gli afferrai il polso, con l’intenzione di strappargli la pistola. Aveva una salda presa sul calcio e il dito sul grilletto. Il caricatore emise un lieve sibilo e un’altra cartuccia di fléchettes entrò nella camera di scoppio. Sentii sul viso l’alito puzzolente di whisky e di sigaro, mentre Herrig, con una smorfia di trionfo, forzava verso di me la bocca dell’arma. Con un unico movimento urtai col braccio il polso di Herrig e la pesante pistola, spingendola a incastrarsi sotto la sua serie di menti. Per un attimo incrociammo lo sguardo, mentre i suoi sforzi per liberarsi gli facevano completare la pressione sul grilletto.

Spiegai a uno degli altri tre cacciatori come usare la radio tenuta nella stanza comune e nel giro di un’ora sul prato erboso si posò uno skimmer della polizia della Pax. Sul continente c’era solo una decina di skimmer in buone condizioni, per cui la vista del nero velivolo della Pax come minimo faceva rinsavire.

Mi legarono i polsi, mi piantarono alla tempia un persuasore corticale e mi sbatterono nella cella nel retro del velivolo. Rimasi lì, gocciolando sudore per il caldo, mentre gli specialisti di medicina legale, addestrati dalla Pax, usavano una sottile pinzetta nel tentativo di recuperare dal pavimento e dalla parete, tutti bucherellati, ogni frammento del cranio sbriciolato e dei tessuti cerebrali spappolati di Herrig. Poi, interrogati gli altri cacciatori e ritrovato di Herrig quant’era possibile ritrovare, gli agenti caricarono sullo skimmer il cadavere impacchettato, mentre li osservavo dal finestrino di perspex. Le pale di sollevamento gemettero e i ventilatori mi regalarono un soffio d’aria fresca proprio quando pensavo di non riuscire più a respirare; lo skimmer si alzò in volo, girò una volta intorno alla piantagione e puntò a sud, verso Port Romance.

Sei giorni dopo, si tenne il processo. I signori Rolman, Rushomin e Poneascu testimoniarono che durante il viaggio alla palude avevo insultato il signor Herrig e poi l’avevo assalito. Dissero che il mio cane da caccia era rimasto ucciso nella zuffa iniziata da me. Affermarono che, tornati alla piantagione, avevo brandito l’illegale pistola a fléchettes e minacciato di ucciderli tutti. Herrig aveva tentato di strapparmi l’arma. Io gli avevo sparato a bruciapelo, sbriciolandogli letteralmente la testa.

Il signor Herrig fu l’ultimo a testimoniare. Ancora scosso e pallido dopo i tre giorni per la risurrezione, vestito in completo scuro e cappa, confermò con voce incerta la testimonianza degli altri tre e descrisse subito il brutale assalto. Il mio difensore d’ufficio si astenne dal controinterrogarlo. In quanto cristiani rinati in buoni rapporti con la Pax, non fu possibile obbligare gli altri a testimoniare sotto l’influenza della veritina o di altri prodotti chimici o mezzi elettronici di verifica. Mi dichiarai disposto a sottopormi alla veritina o alla scansione totale, ma il pubblico ministero obiettò che quei sistemi erano non pertinenti e il giudice approvato dalla Pax accettò l’obiezione. Il mio avvocato non protestò.

Non c’era giuria. Il giudice impiegò meno di venti minuti per emettere il verdetto. Colpevole, condannato a morte mediante neuroverga.

Mi alzai e chiesi che la sentenza fosse rimandata finché non avessi avvertito mia zia e i miei parenti nel nord Aquila e li avessi visti per l’ultima volta. La richiesta fu respinta. L’esecuzione fu stabilita per il giorno seguente, all’alba.

3

Quella sera venne a farmi visita un prete del monastero della Pax di Port Romance. Era un ometto piuttosto nervoso, dai radi capelli biondi, con una lieve balbuzie. Appena entrato nel parlatorio privo di finestre, si presentò come padre Tse e con un gesto allontanò le guardie.

— Figliolo — cominciò… e a me venne da sorridere, perché il prete pareva più o meno della mia età. — Figliolo… sei pronto per domani?

Mi passò subito la voglia di sorridere. Scrollai le spalle.

Padre Tse si mordicchiò il labbro. — Non hai accettato Nostro Signore… — disse, con voce tesa per l’emozione.

Provai l’impulso di scrollare di nuovo le spalle. Dissi invece: — Non ho accettato il crucimorfo, Padre. Potrebbe non essere la stessa cosa.

Mi fissò con occhi insistenti, quasi supplichevoli. — È davvero la stessa cosa, figliolo! Nostro Signore l’ha rivelato.

Rimasi in silenzio.

Padre Tse posò il breviario e mi toccò i polsi legati. — Se ti penti stasera e accetti Gesù Cristo come tuo personale Salvatore, dopo tre giorni da… da domani… risorgerai per vivere di nuovo nella grazia del perdono di Nostro Signore — disse. Mi fissò senza battere ciglio. — Lo sai, vero, figliolo?