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— Dio mio! — riuscii a dire, afferrandomi con forza alla balaustra e serrando gli occhi. Non servì a niente. Il vuoto era anche lì. In quel momento capii per quale motivo i viaggiatori interstellari sceglievano sempre la crio-fuga.

Per quanto possa sembrare incredibile, Aenea continuò a suonare il pianoforte. Le note erano chiare, cristalline, come se non fossero modificate da nessun mezzo di trasmissione. Anche con gli occhi chiusi, vedevo A. Bettik fermo accanto alla porta, viso dalla pelle azzurra rivolto al vuoto. No, mi accorsi, non era azzurro… lì i colori non esistevano. Né esistevano il nero, il bianco, il grigio. Mi domandai se le persone cieche dalla nascita sognavano, in un analogo modo pazzesco, luci e colori.

«Compensazione in corso» disse la nave; e la sua voce aveva la stessa caratteristica cristallina delle note del pianoforte.

All’improvviso il vuoto crollò su se stesso, la vista tornò e le sfere azzurra e rossa ricomparvero a prua e a poppa. Nel giro di qualche secondo la sfera azzurra di prua migrò lungo la nave come una ciambella che scorra lungo uno stilo, e si mescolò alla sfera rossa di poppa: dalla sfera di prua esplosero senza preavviso variopinte geometrie simili a creature volanti che emergano da un uovo. Dico "variopinte geometrie", ma l’espressione non illustra per niente la complessa realtà: figure generate da frattali pulsavano e s’attoreigliavano e si torcevano in quello che era stato il vuoto. Forme a spirale, dentellate dalle proprie sub-geometrie, s’arricciavano su se stesse, generavano forme più piccole della medesima luminosità color blu cobalto e rosso sangue. Ovoidi gialli divennero esplosioni di luce simili a stelle pulsar. Eliche color malva e indaco, che parevano il DNA dell’universo, passarono a spirale davanti a noi. Udivo quei colori come tuono remoto, come martellio di frangenti appena al di là dell’orizzonte.

M’accorsi d’essere a bocca aperta. Girai le spalle alla balaustra e cercai di fissare la bambina e l’androide. I colori dell’universo di frattali giocavano su di loro. Aenea suonava ancora in sordina e continuò a muovere le dita sulla tastiera anche quando alzò gli occhi verso di me e verso il cielo di frattali alle mie spalle.

— Forse sarebbe meglio rientrare — dissi; udii ogni singola parola restare sospesa a mezz’aria, staccata dalle altre, come una serie di ghiaccioli lungo un ramo.

— Affascinante — disse A. Bettik, sempre a braccia conserte, sguardo perduto nel tunnel di disegni che ci attorniava. La sua pelle era di nuovo azzurra.

Aenea smise di suonare. Forse per la prima volta intuì il mio senso di vertigine e il mio terrore; si alzò, mi prese per mano e mi guidò nella nave. La loggia ci seguì, ritraendosi. Lo scafo riprese la sua solita forma. Fui di nuovo in grado di respirare.

— Abbiamo sei giorni — disse la bambina. Eravamo seduti nella piazzola olografica perché lì c’erano i comodi cuscini. Avevamo mangiato e A. Bettik ci aveva portato bibite alla frutta prese dal frigorifero. Le mani mi tremavano solo un poco, mentre ce ne stavamo seduti a parlare.

«Sei giorni, nove ore e ventisette minuti» precisò la nave.

Aenea alzò lo sguardo verso la paratia. — Nave, resta pure in silenzio per un poco, a meno che tu non debba dirci qualcosa d’importanza vitale o che noi non ti rivolgiamo una domanda.

«Sì, signora… Aenea» disse la nave.

— Sei giorni — ripeté Aenea. — Dobbiamo prepararci.

Sorseggiai la bibita. — Prepararci a cosa?

— Credo che saranno lì ad aspettarci. Dobbiamo escogitare un modo per attraversare il sistema di Parvati e raggiungere Vettore Rinascimento senza che loro ci blocchino.

Guardai Aenea. Aveva l’aria stanca. I capelli erano ancora in disordine per la doccia. Con tutte le chiacchiere dei Canti su Colei Che Insegna, mi ero aspettato qualcosa di straordinario… un giovane messia in tunica, un prodigio che parlasse per enigmi… ma l’unica cosa straordinaria in quella ragazzina era la profonda chiarezza dei suoi occhi scuri. — Come potrebbero aspettarci? — replicai. — L’astrotel non funziona da secoli. Le navi della Pax alle nostre spalle non possono chiamare a destinazione come si faceva ai tuoi tempi.

Aenea scosse la testa. — L’astrotel aveva smesso di funzionare già prima che io nascessi. Non dimenticare che mia madre mi aveva in grembo durante la Caduta. — Guardò A. Bettik, che beveva succo di frutta, ma non si era seduto. — Non mi ricordo di te, mi spiace — proseguì Aenea. — Come ho già detto, solevo fare visita alla Città dei Poeti ed ero convinta di conoscere tutti gli androidi.

A. Bettik le rivolse un leggero inchino. — Non ha ragione di ricordarsi di me, signorina Aenea. Avevo lasciato la Città dei Poeti ancora prima del pellegrinaggio di sua madre. A quel tempo, con i miei fratelli lavoravo lungo il fiume Hoolie e nel mar d’Erba. Dopo la Caduta, abbiamo… lasciato il servizio… e siamo vissuti da soli in luoghi differenti.

— Capisco. Erano tutti impazziti, dopo la Caduta. Mi ricordo. Gli androidi sarebbero stati in pericolo, a ovest della Briglia.

Incrociai il suo sguardo. — No, sul serio, come potrebbero aspettarci a Parvati? Non possono precederei, perché abbiamo effettuato per primi la traslazione alla velocità quantica; al massimo, possono emergere nel sistema di Parvati un paio d’ore dopo di noi.

— Già — disse Aenea. — Ma penso ancora che, non so come, saranno lì ad aspettarci. Dobbiamo escogitare un modo affinchè questa nave disarmata possa battere in velocità o in rapidità di manovra una nave da guerra.

Parlammo ancora per parecchi minuti, ma nessuno di noi, neppure la nave, quando la interrogammo, ebbe un’idea brillante. Mentre parlavamo, osservavo la bambina: labbra atteggiate a un lieve sorriso, quando rifletteva; una ruga appena accennata sulla fronte, quando parlava con convinzione; voce pacata. Capivo perché Martin Sileno volesse che fosse protetta.

— Mi domando come mai il vecchio poeta non ci abbia chiamati, prima che lasciassimo il sistema — dissi. — Di sicuro avrà avuto voglia di parlarti.

Aenea si passò fra i capelli le dita come se fossero un pettine. — Zio Martin non mi saluterebbe mai usando trasmettitori a raggio compatto o mediante ologramma. Ci siamo accordati per parlarci al termine del viaggio.

La guardai. — Allora avete programmato insieme questa storia? Voglio dire… la tua fuga, il tappeto hawking… tutto?

Aenea sorrise di nuovo al pensiero. — Mia madre e io abbiamo programmato i particolari essenziali. Alla sua morte, zio Martin e io abbiamo discusso il piano. Stamattina lui mi ha accompagnato alla Sfinge…

— Stamattina? — ripetei, confuso. Poi capii.

— Per me è stata una giornata lunghissima — disse in tono triste la bambina. — Ho mosso alcuni passi stamane e ho coperto metà del tempo in cui gli esseri umani sono stati su Hyperion. Tutti coloro che conoscevo, a parte zio Martin, sono di sicuro morti.

— Non è detto — replicai. — La Pax è giunta su Hyperion poco dopo la tua scomparsa, quindi molti tuoi amici e familiari potrebbero avere accettato la croce. Sarebbero ancora lì.

— "Accettato la croce" — ripeté Aenea, con un lieve brivido. — Non ho familiari… mia madre era la mia unica vera famiglia… e non credo che molti nostri amici, miei e di mia madre, avrebbero… accettato la croce.

Ci guardammo in silenzio per qualche istante e capii quanto mi fosse estranea quella giovane creatura: gli avvenimenti storici di Hyperion a me noti in gran parte non si erano ancora verificati, quando la bambina era entrata nella Sfinge, "stamattina".

— Comunque — riprese Aenea — non abbiamo progettato tutto fin nei minimi particolari, per esempio il tappeto hawking… non potevamo sapere se la nave del Console sarebbe tornata portandolo con sé… però mamma e io abbiamo progettato di usare il Labirinto, se la Valle delle Tombe fosse stata zona proibita. Questa parte del piano ha funzionato. E ci auguravamo che la nave del Console fosse lì per portarmi via dal pianeta.