— Maledizione — dissi. — Cosa sarà?
— Il locale di Gus? — suggerì Aenea.
Sospirai. — In questo caso, avrà un nuovo proprietario. Nell’ultimo paio di secoli c’è stata scarsità di turisti sul Teti. — Esaminai la piattaforma. — Un mucchio di piani — borbottai. — Varie navi alla fonda… pescherecci, scommetto. Una rampa per skimmer e altri velivoli. Mi pare di scorgere un paio di tòtteri legati laggiù.
— Cosa sono i tòtteri? — domandò Aenea, abbassando il binocolo.
Rispose A. Bettik. — Velivoli che utilizzano ali mobili, un po’ come gli insetti, signorina Aenea. Durante l’Egemonia erano abbastanza diffusi ma su Hyperion sono sempre stati rari. Mi pare che li chiamassero anche libellule.
— Li chiamano ancora libellule — dissi. — La Pax ne aveva alcuni su Hyperion. Ne ho visto uno che atterrava sulla piattaforma di ghiaccio di Ursus. — Alzai di nuovo il mirino e riuscii a scorgere le bolle a forma d’occhio nella parte anteriore delle libellule, illuminate dalla luce proveniente da una finestra. — Sono proprio tòtteri — confermai.
— Avremo qualche difficoltà a passare davanti alla piattaforma per raggiungere il portale senza farci vedere — notò A. Bettik.
— Presto — dissi, girandomi. — Smontiamo la tenda e l’albero.
Avevamo rizzato nuovamente la tenda per avere una sorta di riparo/parete sulla dritta della zattera verso poppa… un angolo riservato ai servizi igienici di cui non starò qui a parlare… ma ora la smontammo e la piegammo in un pacchetto grande come la mia mano. A. Bettik abbassò il palo di prua. — Il timone?
Diedi una rapida occhiata. — Lascialo. Non ha una sezione trasversale percettibile dal radar e non è più alto di noi.
Aenea esaminava ancora la piattaforma. — Per il momento non possono vederci — disse. — Siamo quasi sempre nel ventre d’onda. Ma quando saremo più vicino…
— E quando sorgeranno le lune… — aggiunsi.
A. Bettik si sedette accanto al focolare. — Se potessimo fare un largo giro per raggiungere il portale…
Mi grattai la guancia. — Già. Avevo pensato di usare la cintura di volo per rimorchiare la zattera, ma…
— Abbiamo il tappeto — disse Aenea, unendosi a noi accanto al termocubo. Senza la tenda, la zattera pareva vuota.
— Come agganciamo la fune di rimorchio? — obiettai. — Bruciamo il tappeto per praticarvi un foro?
— Se avessimo un’imbracatura… — cominciò l’androide.
— Ce l’avevamo, una bella imbracatura per la cintura di volo! L’ho data in pasto al Leviatano dalla bocca a lampada.
— Potremmo costruirne un’altra — proseguì A. Bettik — e legare la fune alla persona sul tappeto.
— Certo — obiettai — ma in aria il tappeto offre un ritorno radar più forte. Se laggiù fanno posare skimmer e tòtteri, hanno di sicuro un controllo del traffico, non importa quanto primitivo.
— Possiamo tenerci bassi — disse Aenea. — Mantenere il tappeto appena sopra le onde… più o meno alla nostra altezza.
Mi grattai il mento. — Possiamo — dissi. — Ma se facciamo un’ampia deviazione per tenerci fuori vista dalla piattaforma, prima d’arrivare al portale le lune saranno alte. Diavolo… sarà come puntare direttamente lì, in questa corrente. Alla luce delle lune ci vedranno di sicuro. E poi il portale dista dalla piattaforma poco più d’un chilometro. Quelli sono abbastanza in alto da vederci, appena saremo così vicino.
— Non sappiamo se ci cercano — disse Aenea.
Annuii. L’immagine di quel prete-capitano che aspettava proprio noi nel sistema di Parvati e su Vettore Rinascimento non mi abbandonava mai a lungo: il solino da prete sull’uniforme nera della Pax. Una parte di me s’aspettava che fosse sulla piattaforma, in attesa con soldati della Pax.
— Non importa poi molto se ci cercano — dissi. — Anche se vengono solo a salvarci, abbiamo una storia di copertura che regga?
Aenea sorrise. — Siamo usciti per una gita al chiaro di luna e ci siamo perduti? Hai ragione, Raul. Ci "salverebbero" e passeremmo il prossimo anno cercando di spiegare alle autorità della Pax chi siamo. Forse non ci cercano, ma sono sul pianeta…
— Sì — disse A. Bettik. — La Pax ha estesi interessi su Mare Infinitum. Da ciò che abbiamo spigolato mentre ci tenevamo nascosti nella città universitaria, da tempo qui è subentrata la Pax, per riportare l’ordine, creare gruppi di controllo delle fattorie marine e convertire al Cristianesimo della rinascita i sopravvissuti alla Caduta. Mare Infinitum era un protettorato dell’Egemonia; ora è una colonia della Chiesa.
— Brutta notizia — disse Aenea. Girò lo sguardo dall’androide a me. — Qualche idea?
— Credo di sì — dissi. Mi alzai. Avevamo parlato sottovoce, anche se ci trovavamo almeno a quindici chilometri dalla piattaforma. — Invece di tirare a indovinare chi c’è laggiù e che cosa combina, perché non andiamo a dare un’occhiata? Forse ci sono soltanto i discendenti di Gus e pochi pescatori addormentati.
Aenea emise un verso lamentoso. — Quando abbiamo visto le luci, sai cos’ho pensato che poteva essere?
— Cosa?
— Il gabinetto di zio Martin.
— Prego? — disse l’androide.
Aenea si batté a mani aperte le ginocchia. — Sul serio. Mamma diceva che quando Martin Sileno era un imbrattacarte di fama, ai tempi della Rete, aveva una casa multiplanetaria.
Corrugai la fronte. — Nonna mi ha parlato di quelle case. Teleporter fra una stanza e l’altra. Una sola casa con stanze in diversi pianeti.
— Decine di pianeti, per la casa di zio Martin, se bisogna credere a mia mamma. E zio Martin aveva il bagno su Mare Infinitum. Nient’altro che un pontile galleggiante e una tazza. Né pareti, né soffitto.
Guardai il moto ondoso dell’oceano. — Questo per l’identità con la natura — dissi. Mi diedi una manata sulla gamba. — Bene, vado, prima di perdere il coraggio.
Nessuno trovò da ridire, né si offrì di prendere il mio posto. Se l’avessero fatto, forse mi sarei lasciato convincere.
Mi cambiai e indossai i calzoni e il maglione più scuri che avevo; poi m’infilai sopra il maglione il giubbotto da caccia, di colore smorto, e mi sentii un po’ teatrale. "Il pivello dei commandos va alla guerra" borbottò la parte cinica del mio cervello. Le ingiunsi di fare silenzio. Tenni la cintura con la rivoltella, misi nella giberna agganciata alla cintura tre detonatori e un panetto d’esplosivo al plastico, m’infilai gli occhialoni per la visione notturna in modo che penzolassero senza dare nell’occhio dentro il collo del giubbotto quando non li usavo e mi sistemai all’orecchio gli auricolari di una ricetrasmittente, tenendo contro la gola il microfono subvocale. Aenea si mise l’altra apparecchiatura e provammo se funzionavano. Passai ad A. Bettik il comlog. — Quest’affare riflette troppo facilmente la luce — dissi. — E la voce della nave potrebbe mettersi a strillare stupidaggini sulla navigazione spaziale nel momento meno opportuno.
L’androide annuì e ripose nel taschino della camicia il braccialetto. — Ha un piano, signor Endymion?
— Ne farò uno quando sarò là — dissi, facendo sollevare il tappeto hawking sopra il pianale della zattera. Toccai Aenea sulla spalla… e il contatto mi parve all’improvviso simile a una scarica elettrica. Avevo già notato quell’effetto, quando le toccavo la mano: niente di sessuale, è ovvio, ma elettrico ugualmente. — Stai al coperto, ragazzina — le mormorai. — Griderò, se avrò bisogno d’aiuto.
Aenea mi guardò, seria. — Non servirebbe a niente, Raul. Non potremmo accorrere.
— Lo so, scherzavo.
— C’è poco da scherzare — mormorò lei. — Se non sarai con me sulla zattera quando varcherò il portale, rimarrai qui.
Il pensiero mi fece rinsavire, più di quanto non avesse fatto l’idea che mi sparassero. — Tornerò — mormorai. — La corrente ci porterà nei pressi della piattaforma in… tu cosa dici, A. Bettik?
— Un’ora circa, signor Endymion.